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Neopitagorici e gnostici, reazione al male di vivere

francesco lamendola Jul 08, 2022

di Francesco Lamendola

Abbiamo visto come la gnosi sia l’eterna tentazione che si presenta agli uomini ogni qualvolta una crisi sociale generalizzata li induce a rimettere in discussione tutto il loro orizzonte di razionalità e di speranza; ogni qualvolta il richiamo del pessimismo e del nichilismo radicale spegne in loro l’aspettativa gioiosa del domani e li spinge a ripiegarsi su se stessi e sulle proprie ferite (vedi l’articolo: L’eterno richiamo e l’eterna tentazione della gnosi, pubblicato sul sito Brigata per la difesa dell’ovvio, il 02/07/22). Vale la pena di tornare a riflettere sulla genesi storica della gnosi, perché ciò aiuta a comprendere le mille articolazioni di questa antica forma, o meglio pretesa, di una conoscenza superiore riservata agli adepti, e delle mille tracce di essa ravvisabili in tanti aspetti della società e della vita moderna, anche quelli apparentemente più impensati e lontani dalla filosofia, come certe espressioni di arte, musica, spettacolo, e così via.

E anzitutto poniamoci la domanda: quali sono le sue originarie, perenni radici? Storicamente, essa nasce nell’ambito di una civiltà – quella ellenistica, e più precisamente alessandrina, a cavallo della conquista romana dell’Egitto tolemaico – che ha esaurito, come direbbe Oswald Spengler, il proprio ciclo vitale ed è entrata nella fase della civilizzazione, caratterizzata dalla perdita di originalità artistica e speculativa, dal gigantismo architettonico, dal cosmopolitismo, dall’urbanizzazione massiccia che trasferisce nelle megalopoli masse crescenti di popolazione contadina e affretta la perdita dei legami con la terra e i valori familiari di origine rurale, nonché del fatto religioso come esperienza di vita intimamente vissuta in favore di comportamenti e pratiche sociali standardizzate soprattutto di segno soteriologico.

In altre parole, lo gnosticismo, così come il suo fratello gemello, il neopitagorismo, che riprende i temi del vecchio pitagorismo e li declina in senso magico e iniziatico, partendo da una lettura altrettanto pessimistica e nichilista del reale e da un rifiuto altrettanto radicale del “mondo”, che lo porta a identificare il vero Dio con una trascendenza assoluta e a cercare la salvezza dell’anima in una fuga dalla realtà terrena e in un rifiuto intransigente di tutto ciò che è materiale, si può considerare come la risposta estrema, nevrotica, schizofrenica e al tempo stesso elitaria, aristocratica e ultraspiritualista, alla percezione della crescente intollerabilità del male di vivere, che si manifesta sia a livello collettivo, come crisi della storia ed esaurimento del ciclo vitale della civiltà, e quindi dell’autentico fenomeno religioso come fatto intimo della coscienza, vissuto come insieme di norme e orientamenti che sostengono il tessuto sociale, a cominciare da quello familiare, in favore di un rapporto intimistico col sacro e il divino tipico d’un tessuto sociale ormai disgregato; sia a livello personale, come esperienza di un horror vacui che si potrebbe definire un esistenzialismo ante-litteram, con tutto il senso della precarietà e fragilità della condizione umana e la ricerca angosciosa e quasi ossessionante d’una possibile via di fuga dal terrore del nulla e della morte, della malattia e della povertà: in altri termini uno stato d’animo, un’analisi e un giudizio sulla vita umana che ricordano da vicino quelli che videro in India la nascita del buddismo.

Una connessione, quella fra la spiritualità indiana e il pensiero e la spiritualità alessandrini, tutt’altro che azzardata; specie se si prende per buona l’origine indiana di Ammonio Sacca, come alcuni studiosi ipotizzano, maestro di Plotino e così elemento di connessione culturale, psicologica e geografica fra l’ansia di fuga dal mondo propria dell’ambiente religioso e intellettuale indiano e quello tardo ellenistico (vedi il nostro lavoro, prima traduzione in lingua italiana dall’originale latino, I frammenti di Ammonio Sacca in Nemesio, Prisciano, Ierocle, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 15/11/07, presente anche in formato PDF sul sito della Associazione Eco-Filosofica, già Associazione Filosofica Trevigiana).

Scrive Mario Vegetti in Filosofie e società (Bologna, Zanichelli Editore, vol. 1, 1955, pp.287-288):

La setta neopitagorica, già viva in Alessandria nel II e I secolo a. C., e diffusasi nell’ambiente romano nei primi due secoli dopo Cristo, mantiene con il pitagorismo antico un legame più religioso che dottrinale. Per certi aspetti, essa costituisce una vera e propria chiesa, legata alle idee della trasmigrazione delle anime, dell’incarnazione come punizione per un peccato, e alle pratiche magiche di liberazione e di salvezza. In questo quadro, l’esercizio della filosofia è concepito soprattutto in funzione della purificazione dell’anima dai suoi peccati, che le consenta l’uscita dalla vicenda delle reincarnazioni e il ritorno presso la divinità. È naturale, allora, che la maggior figura del neopitagorismo abbia i contorni leggendari del santo: si tratta di Apollonio di Tiana, vissuto forse nel I secolo d. C. e glorificato per i suoi miracoli, frutto di una sovrumana sapienza, per la purificazione delle anime che egli sapeva operare, per le rivelazioni arcane di cui egli era depositario.

L’ossatura filosofica del neopitagorismo deriva da una sintesi fra i motivi religiosi dell’ebraismo, delle religioni indiane e persiane, con alcuni temi dell’antico pitagorismo e del platonismo. La verità di questa filosofia è fatta dipendere da una rivelazione sapienziale di origine divina: così Numenio di Apamea definisce Platone «un Mosè che parlava greco»; Pitagora e Socrate sono del pari concepiti come saggi illuminati dalla divinità.

Il mondo è retto da due principi, la FORMA e la MATERIA, cioè il bene e il male, che a loro volta derivano da un principio supremo, l’UNO divino. Il Dio supremo si vale, per la creazione del mondo, di una seconda divinità, demiurgica. Questa impone la forma alla materia, quindi il principio del bene a quello del male. Ma  il male non può mai venir sradicato dal mondo, per la sua intrinseca connessione con la materia. Esso può dunque essere vinto solo attraverso una duplice fuga dal mondo: mediante la sapienza, che giunge a Dio attraverso la studio delle matematiche (secondo un motivo strettamente pitagorico, il numero è associato alla divinità e ne prepara la conoscenza); e, più drasticamente, attraverso la purificazione dell’anima, che le consente di sottrarsi alla vicenda delle incarnazioni corporee e di vivere, dopo la morte, come puro spirito, dunque nel bene.

Il tema della presenza del male nel mondo, già vivo nel neopitagorismo, è esasperato dagli gnostici, una setta diffusa assai prima del cristianesimo, che trae il suo nome dalla verace  conoscenza (“gnosi”) di cui si proclama depositaria. Il mondo è schiavitù, oppressione, sfruttamento, è vizio e disperazione. Il mondo è dunque il regno del male: gli gnostici si pongono così in opposizione radicale all’ottimismo stoicheggiante della cultura ufficiale, che vede nell’universo la realizzazione della provvidenza divina.

Dio non può aver creato un mondo siffatto: esso è opera di un principio maligno, ribelle alla divinità, che si realizza nella materia e la governa mediante i demoni, le sue diaboliche creature. Da essi l’uomo non può che difendersi con riti e culti salvifici, con pratiche magiche che plachino la malvagità dei demoni.  La salvezza finale viene dal rifiuto del mondo dall’ascesi mistica in cui si consumano il rifiuto del corpo, della materia, infine della vita; essa viene dal rifugio della vera conoscenza, dalla preparazione alla morte che può ravvicinarci all’unico Dio buono, infinitamente lontano dal mondo.

Questa interpretazione estremamente pessimistica di alcuni temi platonici, e lo spirito mistico e ascetico che le si accompagnava, determinò un intreccio profondo fra la gnosi e il nascente pensiero cristiano. Per un verso, il cristianesimo poté apparire come una nuova versione della gnosi; reciprocamente, molti gnostici si fecero cristiani.

Il loro influsso sul cristianesimo fu particolarmente forte nel II secolo d. C., quando l’aggravarsi delle persecuzioni spinse i cristiani a considerare il mondo, l società, lo stato, come irreparabilmente malvagi, e a interpretare la propria fede come rifiuto del mondo e fuga verso Dio. In questo clima nacque il nuovo Vangelo dello gnostico Marcione, in cui si negava che il Dio buono annunciato da Gesù e da Paolo potesse coincidere con la divinità punitiva del Vecchio Testamento. Il Vangelo di Marcione fu presto condannato dalla Chiesa; ma le posizioni gnostico-cristiane furono raccolte e poetate avanti, nel III secolo, dalla predicazione di Mani (…). 

Come si vede ciò che costituisce un problema, sia per il neopitagorismo che per lo gnosticismo, è la presenza del male nel mondo e l’apparente impossibilità di conciliarla con l’esistenza di un Dio amorevole e provvidente; problema che non va sottovalutato, visto che le due più grandi menti filosofiche del cristianesimo, sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino, vi hanno speso le loro energie migliori, al fine di sciogliere il nodo e mostrare la conciliabilità delle due cose, la bontà di Dio e il male insito nella realtà terrena.

In realtà, il problema del male è sempre stato visto come un ostacolo difficilmente superabile per quanti sostengono che l’essere umano, nonostante le apparenze, è ordinato al bene, e che il mondo stesso è un luogo che Dio ha ordinato in tal senso. È chiaro, però, per ragioni psicologiche più che filosofiche, che tale problema è fatalmente destinato ad acuirsi nei momenti storici caratterizzati da incertezza sociale, disorientamento morale e da una generale perdita di fiducia nelle prospettive future: perciò non è affatto strano che quando una società entra nella fase di decadenza, esso regolarmente riaffiora con forza centuplicata e si pone come un ostacolo insormontabile  nel rapporto fra gli uomini e Dio. Ricordiamo la «leggenda del grande Inquisitore» ne I fratelli Karamazov di Dostoevskij, al termine della quale Ivan vede e apprezza, la bellezza del mondo, prefigurazione della bellezza perfetta del paradiso, del quale tuttavia rifiuta il biglietto d’ingresso, affermando di non poterlo accettare se è stato pagato con le lacrime di un solo bambino innocente che soffre. Ora noi stiamo vivendo precisamente in uno di quei momenti storici, per cui è bene separare l’aspetto emotivo da quello razionale: infatti se vi sono delle ragioni razionali per conciliare Dio e il male del mondo, devono esser valide sempre, indipendentemente dal momento storico nel quale si riflette su tale questione.

Partiamo dunque dalla domanda: che cosa spinge neopitagorici e gnostici a rifiutare l’idea che un Dio buona possa essere l’autore del mondo del quale siamo parte? Caso dei neopitagorici, essi partano dall’assunto che Dio sia caratterizzato da una perfezione di tipo matematico, che mal si concilia con la presenza del male, al punto che essi immaginano che il mondo sia creato da una divinità subordinata e che rechi in se stesso l’impronta di un’inevitabile imperfezione; molto simile la posizione gnostica, che si spinge ancora oltre e non può concepire quale creatore se non un dio intrinsecamente cattivo, la cui azione sfugge al governo del Dio “vero”, che è solamente bene. In entrambi i casi si tratta, per l’uomo, di rompere ogni legame col mondo materiale, nel quale non vi è alcun elemento buono: solo così, sopprimendo alla radice il difetto di essere parte del mondo e di avere un corpo fisico, l’uomo può aspirare alla redenzione dal male di esistere: che a quel punto non è la Redenzione cristiana, opera d’un Dio amorevole e sommamente provvidente, il Logos incarnato per la salvezza di quanti vogliono essere suoi figli, ma auto-redenzione che si attua, rispettivamente, mediante la conoscenza di formule matematiche e azioni rituali, oppure mediante l’adesione al vangelo segreto d’un Verbo che non si è incarnato, semmai ha finto d’incarnarsi perché se lo avesse fatto realmente, avrebbe con ciò mostrato d’identificarsi col Dio malvagio che persegue il male cosmico e ostacola la liberazione finale degli uomini, ingannandoli con la falsa idea – falsa e aberrante - della resurrezione dei corpi.

Ora, è evidente che si tratta di posizioni concettualmente esagerate e irrazionali, che arrivano a delle conclusioni assai maggiori delle premesse. La premessa fondamentale è la constatazione che nel mondo esiste un certo grado di male morale: ma proprio tale fatto, a ben guardare, indica che quest’ultimo non è una realtà ontologica sussistente, bensì una carenza di bene. Nel mondo infatti esistono diverse gradazione di bene, perché negli enti vi è una scala ascendente da ciò che è meno perfetto a ciò che è più perfetto. Il fatto fondamentale tuttavia non è la relativa (im)perfezione degli enti, ma che essi esistono, cioè che sono posti in atto: il che è di per sé un bene, dato che l’essere è cosa più perfetta del non essere. Dunque, che il mondo esista è cosa buona: possiamo dire che in esso c’è il male perché l’esistente non manifesta tutto il bene che sarebbe possibile e desiderabile; ma se non esistesse, non vi sarebbe neppure alcuna speranza o possibilità di bene. L’altra alternativa sarebbe che il male non vi fosse perché Dio non lo permette: il che avverrebbe solo al prezzo di sopprimere la libertà umana: perché è chiaro che se l’uomo è libero, è libero anche di fare il male. Ma che l’uomo sia libero, perché reso tale da Dio, è un bene, non un male: ecco l’errore della gnosi.

 

 

 

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