Adesso e nell’ora della nostra morte
Jun 05, 2024di Anna Chialva
Parigi, giugno 2024. Prima il progetto di legge sull’aborto, conclusosi con l’iscrizione della “libertà d’abortire” nella Costituzione; adesso il progetto di legge sull’ “aiuto a morire” dibattuto dall’Assemblea Generale durante le prossime due settimane, in vista del voto definitivo previsto l’11 giugno. Dov’è la Francia dei cosiddetti “diritti dell’uomo”?
“Non è ancora detto che venga accettata la legge, c’è tempo”, si potrebbe pensare. Eppure, mentre noi siamo in attesa, loro dibattono, tra il sì e il no, i dubbi, i pro e contro e alla fine, la legge è accettata. Sì, ma che tipo di legge? Macron sembra aver avuto qualche esitazione nella sala dell’Eliseo il 3 aprile 2023 quando nelle conclusioni riguardanti la Convenzione cittadina sul fine vita si interrogava sullo statuto e sulla funzione delle leggi: «Le leggi non sono ancora riuscite a rispondere ad ogni situazione, ad ogni caso, ad ogni dramma. Ma infondo possono e devono necessariamente farlo?».
La procedura è la stessa, la retorica anche. Per l’aborto si trattava di introdurre una modifica costituzionale volta a determinare «le condizioni nelle quali si esercita la libertà garantita alla donna di fare ricorso a un’interruzione volontaria della gravidanza» (art. 34 della Costituzione); per la legge sul fine vita si tratta, allo stesso modo secondo Olivier Falorni, relatore principale del testo di legge, di «scrivere e votare una grande legge di libertà, la libertà di disporre della propria morte». In entrambi i casi si parla di libertà, ma anche di un’illegittima disposizione della vita umana. È questa la vera libertà? È la scelta di come gestire la propria esistenza o di accettare la propria esistenza mirando al suo massimo compimento? Con la formula “aiuto a morire” l’Assemblea intende «la legalizzazione, secondo certe condizioni, dell’assistenza al suicidio e – nell’ipotesi in cui la persona non è capace di amministrarsi lei stessa la sostanza letale – dell’eutanasia, se espressamente richiesta dalla persona» (art. 5). E qui un’altra argomentazione viene addotta in favore della “legalizzazione” di tali procedure. Come in precedenza fu per l’aborto, anche oggi si tratterebbe di promulgare una legge per favorire l’accesso all’aborto o al suicidio assistito per “proteggere la vita”, ossia evitare che si sviluppi una clandestinità pericolosa per la salute della persona, oppure un elitarismo nella società per cui solo chi ha possibilità finanziarie elevate può accedere a programmi costosi previsti dalle leggi di altri stati vicini, come EXIT (Associazione per il suicidio assistito) in Svizzera. Ma queste argomentazioni, peraltro contraddittorie, non fanno altro che confondere il delitto con un diritto: se davvero si tratta di “proteggere la vita”, cioè difenderla, allora sarebbe bene lavorare sulla prevenzione contro la clandestinità, piuttosto che “curare” la clandestinità con leggi che, invece di difendere la vita, contribuiscono a distruggerla.
Altro parallelismo tra le due leggi è quello sulle condizioni necessarie per cui tali “diritti” vengano messi in pratica. Nel caso dell’aborto si è stabilita una procedura in due tempi: il primo è quello dell’informazione con un medico o un’ostetrica in cui si esamina la donna, la si informa sulle metodiche utilizzate per l’aborto e le tempistiche, sugli svantaggi e gli inconvenienti, si consegna il dossier-guida e si rilascia un’attestazione di consultazione. Un’analisi della situazione psicosociale della donna è proposta alla paziente prima del consenso ed è obbligatoria per le minori. Il secondo tempo è quello del consenso in cui la donna conferma la sua domanda per iscritto e consente al medico di procedere scegliendo tra i due metodi proposti: l’aborto farmacologico (fino a 7 settimane di gravidanza) e l’aborto strumentale (fino a 14 settimane di gravidanza). Se per l’aborto, pur essendoci una procedura necessaria, le condizioni di accesso non si limitano che alla natura fisiologica della persona, ossia essere una donna incinta; nel caso dell’“aiuto a morire” il governo ha previsto delle condizioni apparentemente severe, capaci di garantire l’“equilibrio del testo”, ossia la sua coerenza e la sua corretta applicazione. Bisogna «essere maggiorenne, francese, o risiedere in modo stabile in Francia, nella facoltà di esprimere la propria scelta con discernimento fino all’ultima fase, soffrire di una malattia grave e incurabile con una prognosi vitale a corto o medio termine e sofferenze fisiche e psicologiche refrattarie ai trattamenti». Tali “paletti”, come solitamente accade nella stesura di leggi ingiuste, sono inevitabilmente destinati a dissolversi nel nulla. Anzitutto, bisogna rilevare come tali condizioni siano volutamente ambigue e inadatte ad ogni caso specifico. Basti pensare al fatto che, come sottolinea Falorni, il criterio di prognosi vitale è inattuabile per alcune malattie neurodegenerative (come la malattia di Charcot) in quanto hanno una speranza di vita molto più lunga rispetto al “medio termine” stabilito, ossia un anno. Allo stesso modo, la condizione di “pieno discernimento” del malato è inapplicabile nei casi di Alzheimer. Ben presto, per poter ricomprendere tutte le “casistiche possibili” si arriverà ad una totale liberalizzazione di questa pratica. A meno di non voler ammettere che la vera decisione non sia in capo all’individuo che si crede “libero”, ma in capo allo Stato che sancisce chi può accedere al suicidio e chi no. E dunque, addio anche alla retorica della “libertà di scelta”.
Purtroppo, le opposizioni a questa deriva mortifera non si concentrano su una difesa della vita senza compromessi, ma piuttosto, sulla scrittura appropriata di una legge capace di permettere a ciascuno di accedere a questo “diritto”. Non ci sarà dunque da stupirsi se la legge verrà votata, magari con qualche modifica al testo, in quanto non sussiste una netta e vera opposizione. A maggior ragione dopo la richiesta di alcuni deputati che, dicendosi favorevoli alla nuova legge, hanno comunque sottolineato l’importanza di un’applicazione effettiva della parte del progetto di legge consacrato allo sviluppo delle cure palliative per «rendere il criterio di libera scelta realmente operante». La risposta dell’Assemblea precisa, infatti, che «l’aiuto a morire non deve ovviamente pensarsi come una soluzione alle cure palliative insufficienti» (Laurent Paniflous, LIOT) e che anzi bisogna considerare il diritto alle cure palliative come il «fratello siamese del diritto dell’aiuto a morire» (Sandrine Rousseau, Ecologista). Copione già visto: il male va avanti mascherandosi da bene.
E allora… sembrerebbe ci siano tutte le condizioni per dire un sì pieno a questa legge, non è vero?
In questo modo, in un anno la Francia avrà reso la sua legislazione ancor più criminale di quanto già non fosse, deliberando sul diritto alla vita. Tutto ciò delimitando la dignità di una persona alle sole condizioni di salute, come se non vi fosse ben altro. E, purtroppo, non sarà sicuramente l’ultima nazione che giungerà a queste risoluzioni; anzi, non siamo che agli inizi.
Eppure… è “adesso e nell’ora della nostra morte” che tutti noi dobbiamo e dovremo rendere conto a Dio delle nostre azioni e delle nostre scelte. Nessuna legge potrà salvarci se non quella stessa legge divina che rende possibile la formazione di un bambino nel grembo materno e dona all’ultimo respiro del giusto quella pace estranea a tutta l’agitazione dell’esistenza, trasformandola in una nuova nascita.
Georges Bernanos, autore cattolico francese, ritiratosi in Brasile durante la crisi politica del suo amato stato francese in piena Seconda Guerra Mondiale, affermava con devozione: «Mi sono sempre sforzato di capire la Francia, perché lei mi è sempre apparsa fin dall’infanzia come un essere vivente, davvero vivente, cioè capace d’amare». Che la Francia possa nuovamente scegliere l’Amore e rimanervi sempre.
FONTE : Universitari per la Vita
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