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C’è un mondo reale, lì fuori? E si può conoscerlo?

francesco lamendola Oct 19, 2022

di Francesco Lamendola

La conoscenza umana incomincia dal senso e poi elabora i concetti. Nisi in intellectu quod prius non fuerit in sensu: su ciò erano d’accordo sia Aristotele che san Tommaso d’Aquino, e perfino Locke; solo Leibniz volle aggiungervi la postilla tipicamente moderna: nisi ipse intellectus, cioè tranne l’intelletto stesso.

E tuttavia sorge la domanda: conoscere sensibilmente qualcosa significa conoscere davvero quel qualcosa, o non significa piuttosto conoscere la propria idea di quella cosa, dunque una realtà interiore, psichica e soggettiva e non già esterna, ontologica e oggettiva? Per moltissimi secoli è stata prevalente la prima scuola di pensiero: da Aristotele (ma non Platone) fino a san Tommaso d’Aquino, la maggior parte dei filosofi ha ritenuto che la conoscenza è qualcosa di oggettivo, che permette di gettare un ponte fra l’io e le cose; e dunque un’attività perfettamente compatibile con la metafisica, cioè con l’idea che esistono le cose in sé, che non coincidono con le cose così come appaiono, e tuttavia non sono distinte e separate da esse, ma anzi ne formano il nucleo, l’essenza vera e propria.

Poi è arrivata la modernità: sono arrivato Cartesio, Galilei, Newton e i fautori della nuova scienza meccanicista e di una visione dualista del reale; e la seconda scuola di pensiero ha preso nettamente il sopravvento. Però con una grossa differenza rispetto a Platone: ossia rinunciando, un po’ alla volta, a qualunque speranza, e perfino a qualunque interesse, di giungere alla cosa in sé concepita come distinta dal fenomeno: processo che è culminato nel criticismo kantiano e nell’esplicita rinuncia alla metafisica come scienza.

Questo snodo fondamentale del pensiero moderno, tanto gravido di conseguenze e tanto drastico e reciso da apparire come definitivo e irrecusabile, è stato ben sintetizzato da un’illustre filosofa italiana, Sofia Vanni Rovighi (San Lazzaro di Savena, 1908-Bologna, 1990), figura di spicco del neotomismo italiano e prestigiosa docente della Cattolica di Milano dall’inizio degli anni ’50 al 1978, in una pagina del suo volume Introduzione allo studio di Kant (Brescia, La Scuola Editrice, 1968, pp. 23-25), che qui riportiamo:

È nota la soluzione più coerente dell’empirismo, di quella corrente cioè che, riducendo gli oggetti sensibili a idee, non ammette un accesso extrasensibile alla realtà: la soluzione humiana. La realtà tutta (mondo corporeo e soggetto conoscente) non è altro che un fascio di percezioni. «La mente è una specie di teatro, dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano con un’infinita varietà di atteggiamenti». Ma Hume si accorge che quel TEATRO, in cui appaiono le percezioni, intaccherebbe la purezza del suo fenomenismo e si affretta ad aggiungere: «E non si fraintenda il paragone del teatro: a costituire la mente non c’è altro che le percezioni successive…» (“Trattato sull’intelligenza umana”, I libro del “Trattato sulla natura umana”, IV, 6). Così la realtà è ridotta ad un apparire, che è apparire di nulla e apparire a nessuno. Non c’è più né la cosa che appare, né il soggetto a cui appare; eppure c’è l’apparire: contraddizione nei termini. (…)

La teoria, così universalmente diffusa nel pensiero moderno, che la conoscenza sensibile attesti soltanto la modificazione soggettiva e non la cosa in sé, nasce dunque da una esigenza della filosofia della natura [cioè della scienza galileiana]. Dobbiamo domandarci ora se si tratti di una vera esigenza o di una pseudo-esigenza.

La grande scoperta galileiana è questa: non si può elaborare una fisica come scienza rigorosa adoperando concetti qualitativi, poiché delle qualità abbiamo soltanto percezioni sensibili, ma non concetti. Era legittimo dedurne, come ne ha dedotto Galilei, che le qualità corporee non hanno esistenza fisica?

Non sembra. Affinché la deduzione fosse legittima, bisognerebbe presupporre che l’intelletto umano fosse la misura della realtà, che esista solo ciò che è pienamente intelligibile per l’uomo. Ora questa non è certo un’affermazione immediatamente evidente, e quindi non si può assumerla come presupposto. Caso mai essa andrebbe dimostrata, e invece non la troviamo dimostrata, ma posta tacitamente a base di un processo di pensiero dal quale si svolge il soggettivismo moderno. Il quale ci appare così come una grande petizione di principio.

Abbiamo citato sopra  Galileo come il primo che, in nome di esigenze scientifiche, ha negato la fisicità delle qualità corporee; abbiamo detto tuttavia che Galileo si limita a confinare le qualità nel modo animale, senza negare la loro corporeità. Il grande teorizzatore della soggettività (psichicità) delle qualità è Cartesio, ed abbiamo visto come questa sua teoria sia interamente comandata dal suo meccanicismo. Ora un rigoroso meccanicismo si è dimostrato impensabile. Che cosa è questo mondo corporeo ridotto a pura estensione in movimento? Le obiezioni idealistiche contro l’esistenza della materia, da quelle di Berkeley a quelle degli idealisti contemporanei (che sono in realtà rivolte contro l’esistenza di un mondo corporeo cartesianamente inteso) ne mettono bene in rilievo l’impensabilità.

Inoltre, come si spiega la possibilità di un rapporto fra lo spirito (sede di tutto ciò che è qualitativo, secondo la concezione cartesiana) e l’estensione pura? Eppure il rapporto c’è; c’è nell’uomo, questa pietra di inciampo di ogni concezione meccanicistica. Si sa che il rapporto tra anima e corpo si rivelò inspiegabile nella concezione cartesiana della realtà, e le soluzioni inverosimili di questo problema, da quella cartesiana della ghiandola pineale a quella occasionalistica del Malebranche a quella leibniziana dell’armonia prestabilita, si succedettero l’una all’altra.

Innanzitutto, vogliamo esprimere la nostra riconoscenza per un pensiero così chiaro, obiettivo,  misurato, quale raramente si trova nei docenti universitari, e che senza dubbio ha acceso la fiamma della passione filosofica in chissà quanti giovani, mostrando loro, con la pacatezza e la tranquillità che sono proprie dell’universo mentale tomista, che la ragione naturale può fare molta strada, a patto che non cada nel peccato d’orgoglio e non indulga ad assolutizzazioni arbitrarie delle proprie ipotesi non ancora adeguatamente verificate.

Notiamo poi che l’idea galileiana che le qualità corporee non hanno esistenza fisica è all’origine della teoria moderna, e a nostro giudizio dell’errore moderno, di identificare le cose con le idee. Quando lo studente apprende che per Locke, Berkeley e Hume le “idee” sono, in buona sostanza, le sensazioni soggettive generate dalle percezioni sensibili, sulle prime rimane stupito e ha bisogno di compiere un certo sforzo psicologico per familiarizzarsi con una tale prospettiva, che gli riesce affatto nuova perché, nel sentire e nel parlare comune, le cose sono appunto cose e le idee sono idee. Certo rimarrebbe meno stupito, e dovrebbe compiere uno sforzo concettuale assai minore, se il professore gli facesse notare, come ha fatto qui Sofia Vanni Rovighi, che non si tratta di una stranezza tutta britannica, ma che il germe di essa è squisitamente italiano, poiché appartiene alla teoria galileiana della conoscenza.

Veniamo a Galilei.

Mente antifilosofica quanto altre mai, egli sostiene la sua visione scientifica con argomenti filosofici, sia nel Saggiatore che nel Dialogo, salvo poi giustificare le sue idee filosofiche (e teologiche, come quando afferma di sapere come “funziona” la mente di Dio!) con ragioni scientifiche), per una necessità scientifica – l’impossibilità di descrivere i corpi fisici in termini qualitativi – non esita a trarre una conclusione filosofica assai maggiore della premessa: cioè che le qualità dei corpi non hanno consistenza fisica. Era logico che gli empiristi portassero questo punto di vista fino alle estreme conseguenze: non tanto Locke, che esita di fronte a ciò e introduce la fittizia distinzione fra qualità primarie, che sono nei corpi, e qualità secondarie, che sono nella mente, quanto Berkeley e più ancora Hume, i quali arrivano a ridurre le cose a semplici percezioni: esse est percipi (sebbene, come osserva Sofia Vanni Rovighi, si tratti dell’essere delle idee e non dell’essere in sé). Galilei ha fornito loro l’esca e il paravento, per così dire, scientifico; anche se il maggior responsabile del soggettivismo radicale è stato Cartesio.

Come osserva la nostra Autrice parlando di Galilei e della sua negazione della realtà fisica delle qualità corporee, affinché la deduzione fosse legittima, bisognerebbe presupporre che l’intelletto umano fosse la misura della realtà, che esista solo ciò che è pienamente intelligibile per l’uomo. Ma presupporre che l’intelletto umano sia la misura della realtà non può essere dato per scontato, come fa Galilei: bisogna almeno provare a dimostrarlo. Solo così si spiega l’infelice affermazione nel Dialogo sopra i due massimi sistemi, che la mente umana, quando si tratta di un sapere intensive, può conoscere alcune verità – quelle matematiche – con lo stesso grado di certezza di Dio stesso: il che presuppone non solo che la mente umana sia la misura di tutto, ma anche che la mente di Duo sia simile a una mente umana, con la sola differenza che ha un più grande bagaglio di conoscenze extensive, cioè quantitativo. Ove si misura la pochezza, per non dire l’inconsistenza, della mente filosofica di Galilei.

Hume fa il passo definitivo, e irreparabile, davanti al quale lui stesso ha un fremito di raccapriccio, e torna sui suoi passi: non ci sono corpi, non c’è la mente, c’è solo un fascio di percezioni. Di che cosa? E chi è il soggetto percipiente? Non si sa; anzi, meglio: nessuno. Non c’è che un teatro, che poi non è nemmeno un vero teatro, ma solo una impropria similitudine: in realtà, né attori né pubblico. Un teatro vuoto, completamente vuoto. Senza saperlo, egli ha sfiorato una concezione molto simile, ma del tutto estranea alla filosofia occidentale, quella del buddismo Theravada: non c’è un io e non ci sono neppure le cose, ma soltanto un complesso di operazioni mentali sempre mutevoli. Ci sono le operazioni mentali, ma senza una mente che le pensa. Possibile? Perfino Hume arriva a dubitarne; e ripiega in buon ordine, criticando – ma solo a parole - gli scettici radicali, i quali mettono in dubbio ogni cosa, ma non si vede quel che si propongano, a cosa vogliano arrivare. In realtà, è molto soddisfatto del suo lavoro: la distruzione di ogni certezza; il piacere di distruggere fine a se stesso.

Poi arriva Kant, al quale piace indossare gli abiti del generoso pompiere, il quale vuole spegnere l’incendio innanzi che divori tutto. E lo spegne facendo piazza pulita di tutto ciò che potrebbe fungere da esca: trascina la ragione davanti al tribunale (il suo), smantella la metafisica, dichiara inconoscibile la cosa in sé; e con ciò pensa di aver recato il più grande servizio possibile alla ragione stessa. Tutto, però, era partito da Cartesio (e per certi aspetti prima ancora, da Guglielmo di Ockham): è stato Cartesio a introdurre il soggettivismo radicale, dal quale la filosofia occidentale, a ben guardare, non è mai più uscita. Il mondo esiste finché io lo penso: e se smetto di pensarlo? A sua volta, il soggettivismo cartesiano è stato originato da una necessità interna, cioè da una debolezza, del suo sistema di pensiero: il meccanicismo, frutto a sua volta del dualismo di res cogitans e res extensa. Se il mondo della materia soggiace esclusivamente a leggi meccaniche, noi, che siamo invece spirito, come possiamo conoscerlo? A rigore, dovremmo ammettere la nostra inadeguatezza e rinunciare a qualsiasi giudizio che esuli dalla nostra mente. D’altra parte, privata di qualunque legame con le cose, alla mente cosa resterebbe da pensare? Pensare se stessa: come il Demiurgo aristotelico. Però l’uomo non è Dio, e la mente umana non è paragonabile alla mente divina (di nuovo, e sempre, l’arrogante e ingiustificata pretesa galileiana di sapere come pensa Dio). Sia come sia, il dualismo di Cartesio presuppone il meccanicismo, e il meccanicismo sfocia necessariamente nel soggettivismo. Tutto il pensiero moderno, che ignora la metafisica e si vanta d’aver fatto un immenso progresso rispetto alla philosophia perennis, rimane imprigionato in questo cul-de-sac e non sa venirne fuori. Perciò allenta sempre di più la sua presa sul mondo, sulle cose reali, e si concentra sempre più sugli aspetti logici del discorso, sulla coerenza delle proposizioni formali.

Resta però, intatto, lo scoglio davanti a cui è naufragata la pretesa cartesiana di giungere ad una conoscenza reale del mondo: il divario incolmabile fra quest’ultimo e la mente, la loro irriducibile differenza ontologica. Come si spiega la possibilità di un rapporto fra lo spirito (sede di tutto ciò che è qualitativo, secondo la concezione cartesiana) e l’estensione pura?, si chiede Sofia Vanni Rovighi. Date le premesse di Cartesio, non c’è alcuna spiegazione: e non resta che andare a caccia di farfalle, come la famosa e inafferrabile ghiandola pineale, l’equivalente moderno e pseudo-scientifico dell’araba Fenice: che vi sia ciascun lo dice, ove sia nessun lo sa.

 

 

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