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Che cos’è un filosofo cristiano?

francesco lamendola Jul 16, 2022

di Francesco Lamendola

Che cos’è un filosofo cristiano? Che cosa ci si deve aspettare di trovare in lui, in quanto filosofo cristiano? È un filosofo che è anche cristiano, oppure un cristiano che fa anche il filosofo? Insomma, da che cosa si riconoscere che un certo filosofo è cristiano?

Suddividiamo la domanda in due questioni. Primo, vediamo in che rapporto sta la filosofia con il cristianesimo: solo così, in termini generali, si potrà capire che cosa debba essere un filosofo cristiano. Secondo, vediamo in che rapporto sta l’essere cristiani con la filosofia: solo così si potrà capire che cosa possa essere un filosofo cristiano.

La filosofia e la fede stanno in un rapporto dialettico che da sempre è oggetto di discussione. Nella cultura moderna prevale di gran lunga l’opinione che si tratti non solo di due ambiti, ma di due paradigmi diversi e inconciliabili: dal che deriva che o si crede nella ragione o si crede in Dio. La cultura europea è stata, per alcuni secoli, di tutt’altra opinione: in particolare con l’opera grandiosa di san Tommaso d’Aquino, essa ha definito sia la reciproca distinzione di ragione e fede, sia la loro complementarità, che non pone alcuna incongruenza fra l’una e l’altra, alcuna incompatibilità di principio, ma semmai una convergenza e un arricchimento della ragione mediante la luce della grazia, che a sua volta viene dalla fede. Non possiamo qui sintetizzare, neppure a grandi linee, le ragioni di tali opposti giudizi: basti dire che aderiamo senz’altro alle conclusioni del tomismo e pertanto rifiutiamo risolutamente l’alternativa fra ragione e fede, che a noi sembra immotivata e pretestuosa, frutto di un pregiudizio ideologico anti-cristiano.

E dunque: si può benissimo fare filosofia ed essere cristiani: il cristiano non cerca altro che il vero, e se il vero coincide con Dio, questo è per lui un punto d’arrivo e non un punto di partenza, né egli lo deve rinnegare solo perché ciò potrebbe apparire come una sottomissione aprioristica della ragione ai dogmi della fede. Se quest’ultimo timore, esplicito o implicito, esiste, questo significa che vi sono una pressione psicologica e un ricatto intellettuale esercitati dalla cultura dominante, laicista e immanentista, nei confronti dei filosofi (e non solo dei filosofi; anche degli scienziati e, per certi aspetti, perfino degli artisti) professanti la fede cristiana. Si chiede loro di prendere le distanze da essa, di fornire attestati di obiettività e di neutralità nei suoi confronti: il che è assurdo e grottesco. Ed è ancora più assurdo e grottesco che vi siamo dei filosofi che si sentono in dovere di fornire tali assicurazioni, come se dovessero rispondere a una sorta di tribunale della ragione (ma quale ragione? non certo quella aristotelica o tomista, semmai quella kantiana e illuminista) e giustificarsi, quasi discolparsi d’essere cristiani, come se ciò li ponesse automaticamente in una posizione equivoca e fortemente sospetta.

Per quanto riguarda il secondo corno della domanda, che cosa significa essere un cristiano che fa filosofia, si tratta essenzialmente di capire in che misura l’essere cristiano eserciti un’influenza sull’attività speculativa, e se ciò si configuri come un intralcio, una limitazione o una qualche forma di condizionamento rispetto a quest’ultima. Rispondiamo che non si tratta né d’intralcio, né di limitazione o di condizionamento, ma piuttosto di un orientamento impresso alla ricerca, per cui il cristiano tende gradualmente a disinteressarsi di tutto ciò che è secondario rispetto alla questione centrale della verità, che per lui coincide con Dio, e un concentrarsi della sua ricerca sull’ontologia e sulla metafisica, oltre che sull’etica, perché in tali ambiti egli sente più vicino l’oggetto principale della propria indagine, mentre gli altri, benché anch’essi collegati al vero – l’estetica, ad esempio, come scienza del bello che coincide col vero – lo interessano di meno, come cose che sì, conducono anch’esse al riconoscimento di Dio, ma vi giungono in maniera più lenta e indiretta. Invece il cristiano è insofferente di ciò che ritarda la sua ricerca di Dio, proprio come colui che ha sete cerca anzitutto le fresche acque correnti del fiume e solo malvolentieri, come un ripiego dettato da una necessità contingente, si adatta a bere nelle pozze d’acqua stagnante.

Ecco cosa pensava di ciò il filosofo e grande studioso del tomismo Étienne Gilson (1884-1978) (in: Grande Antologia Filosofica, vol. XXVII, Il pensiero contemporaneo, traduzione dal francese di G. Giannini, Marzorati, Milano, 1977):

 

In primo luogo, ed è forse il tratto più appariscente del suo atteggiamento, un filosofo cristiano è un uomo che opera una scelta fra i problemi filosofici. In diritto, egli è capace di interessarsi alla totalità di questi problemi come qualunque altro filosofo; di fatto, egli s’interessa unicamente e soprattutto a quelli la cui soluzione vale per la condotta della sua vita religiosa. Il resto, indifferente in sé; diventa l’oggetto di ciò che Sant’Agostino, San Bernardo e San Bonaventura stigmatizzano con il nome di curiosità: “turpis curiositas”. Anche i filosofi cristiani come San Tommaso, il cui interesse si estendeva all’insieme della filosofia, non hanno fatto opera creatrice che in un dominio relativamente ristretto. Niente di più naturale. Poiché la rivelazione cristiana c’insegna solo le verità necessarie alla salvezza, la sua influenza non ha potuto estendersi che alle parti della filosofia che riguardano l’esistenza di Dio e la sua natura, l’origine della nostra anima, la sua natura ed il suo destino, Anche nel titolo e nelle prime righe del suo trattato “Della conoscenza di Dio e di se stesso”, Bossuet si è attenuto all’insegnamento di una traduzione di sedici secoli: «La sapienza consiste nel conoscere Dio e nel conoscere se stessi. La conoscenza di noi stessi ci deve elevare alla conoscenza di Dio». Tutti possono riconoscere in queste formule il “noverim me, noverim te” di sant’Agostino, e, benché Tommaso non l’abbia espressamente fato suo, l’ha messo in pratica. Non è questione di diminuire i suoi meriti come interpete e commentatore di Aristotele; tuttavia, non è qui dove egli è più grande, ma nelle vedute geniali per le quali, prolungando lo sforzo di Aristotele, egli lo supera. Queste vedute si incontreranno quasi sempre a proposito di Dio, dell’anima o del rapporto dell’anima con Dio. Molto spesso bisognerà anche estrarre la più profonda tra di essa dai cotesto teologici in cui sono impigliate, perché in seno ai problemi teologici esse sono effettivamente nate. In un parola, presso tutti i filosofi cristiani degni di questo nome, la fede esercita un’influenza semplificatrice e la loro originalità si manifesta soprattutto nella zona direttamente sottomessa all’influsso della fede: dottrina di Dio, dell’uomo e dei suoi rapporti con Dio.

 

Dunque, come osserva Étienne Gilson, il filosofo cristiano tende a concentrarsi sulle questioni le quali hanno a che fare con la realtà di Dio: non perché egli non sappia trattare tutte le altre questioni filosofiche con la stessa competenza e lo stesso acume di un filosofo non cristiano o non credente (qualunque cosa ciò voglia dire: perché definirsi sulla base di una negazione, come fanno gli atei, equivale ad un’involontaria affermazione di ciò che si nega), ma perché gli altri ambiti di ricerca lo interessano poco, in quanto gli appaiono d’importanza secondaria rispetto a ciò che, per lui, è il cuore del discorso.

Anche san Tommaso d’Aquino, dopo la visione soprannaturale che ebbe qualche mese prima di ammalarsi e morire, smise di scrivere, spiegando al suo amico e discepolo Reginaldo da Piperno, che gliene chiedeva la ragione: «Tutto quello che ho scritto e insegnato finora mi sembra che sia solamente paglia (palea est)».

Un concetto molto simile era già stato espresso, con forza anche maggiore, da san Paolo, in un famoso passaggio della Lettera ai Filippesi (3,7-11):

 

7 Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. 8 Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo 9 e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. 10 E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, 11 con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. 

 

San Paolo non è un filosofo né pretende di esserlo, quindi le sue parole, ai fini del nostro discorso, non vanno forse prese troppo alla lettera; nondimeno è significativo che san Tommaso d’Aquino, grandissimo filosofo, sia giunto, per una via diversa e indipendente da quella di san Palo, pressoché alla medesima conclusione: che tutto ciò che non conduce direttamente a Dio, alla sua conoscenza, a quel solo appagamento che risiede nella sua visione intellettuale (inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te, Domine, dice sant’Agostino), appare a chi ha molto studiato e riflettuto, ma al sapere umano ha aggiunto il dono della fede, come una perdita di tempo e come cosa di poco o nessun valore e della quale è divenuto insofferente perché gli è d’impaccio e lo ritarda nel cammino verso la meta.

C’è poi un altro aspetto che caratterizza il filosofo cristiano, beninteso se è un autentico cristiano e se la sua fede è un fatto sostanziale e non solamente formale. Poiché il filosofo cerca il vero e il vero è Dio, quel Dio che egli, come uomo, ha già trovato nel domo della fede, ne consegue che la grazia divina rende il suo sguardo più acuto, la sua mente più penetrante, tutta la sua intelligenza più pronta ed elastica, più duttile e robusta, e ne fa lo strumento ideale per raggiungere la meta alla quale tende con tutta la propria volontà. In altre parole, al dono ordinario della ragione naturale egli unisce il dono straordinario della grazia soprannaturale, che illumina la ragione e la mette in condizione di levarsi più in alto. Dio, per così dire – è un modo di esprimesi terribilmente umano, ne siamo consapevoli – è “contento” di lui, perché apprezza che egli abbia volto la propria volontà nella direzione giusta, quella del Vero, del Bene e del Bello. Viene in mente la voce soprannaturale che san Tommaso d’Aquino udì provenire dal Crocifisso, nel corso della sua visione: Bene scripsisti de me, Thoma; quam ergo mercedem recipies?, «Tu hai parlato bene di me, Tommaso; quale sarà la tua ricompensa?». Al che il sommo filosofo, che in quel momento era solo un uomo e un cristiano, rispose dal profondo del cuore: Non aliam, Domine, nisi Teipsum, «Nient’altro che Te solo».

Considerando le cose dall’esterno, potrebbe sembrare che il filosofo cristiano sia più limitato di un filosofo che non è cristiano, nel senso che egli stesso circoscrive volontariamente l’ambito della propria ricerca. Ma è proprio così? Se Dio, o l’Essere, o la Causa Prima, come lo vogliamo chiamare, è al centro di tutto e all’origine di tutto, va da sé che concentrare la ricerca filosofica su di Lui equivale ad agevolare e semplificare ogni altro tipo di ricerca e perciò ad essere filosoficamente più agguerriti, e non più limitati. Ci sono una realtà soggettiva ed una oggettiva. Soggettivamente il filosofo “laico”, o magari ateo, ha lo sguardo più ampio e più libero: non si sente limitato da alcunché, può spaziare a tutto campo, senza il problema di conciliare i risultati della propria ricerca con un dottrina teologica già definita. Oggettivamente, invece, tutto ciò che esiste, esiste in virtù dell’essere (e non del pensiero, come voleva Hegel e come vogliono, in genere, gli idealisti, Platone compreso), e l’essere è la verità: dunque chi riconosce l’essere, e pone la propria indagine sotto l’insegna della verità, è infinitamente avvantaggiato rispetto a quelli che non riconoscono né accettano alcun principio superiore. La ragione stessa, in quanto strumento naturale di conoscenza, è data all’uomo perché egli è stato concepito in vista di un fine naturale, il quale non può essere che la piena realizzazione della propria essenza. Perciò o l’uomo si realizza in quanto creatura razionale, adoperando bene la propria ragione per comprendere il mondo secondo verità, oppure fallisce il proprio fine e ricade al di sotto del proprio statuto ontologico. L’uomo non può rimanere sospeso nel vuoto: o attua la propria essenza razionale o scivola al livello dei bruti, dotati della sola anima sensitiva. Ecco perché è così importante che l’uomo divenga quello che deve essere, quello che è chiamato ad essere: se non vi riesce, egli è nulla. Ora, le filosofie del nichilismo oggi dominanti tendono proprio a questo: a convincere l’uomo, contro ragione e contro evidenza, che la sua vita consiste nel fare ciò che gli piace e non ciò che deve, e a conoscere quel che gli serve sul piano dell’utile e non quel che gli serve per realizzare il proprio fine ultimo. Ma il fine ultimo dell’uomo si attua solo in parte nella vita terrena: il più e il meglio si attua nella vita eterna, dopo che egli ha deposto la sua veste carnale. Questo, allora, è un filosofo cristiano: uno che ha compreso la necessità di spogliarsi, intellettualmente e spiritualmente, della propria veste carnale, per aprirsi all’assoluto...

 

 

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