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Distruggere col senso di colpa l’anima di un popolo

francesco lamendola Sep 17, 2022

di Francesco Lamendola

Quanti modi ci sono per distruggere l’anima di un popolo? Per fargli dimenticare la sua storia, per fargli disprezzare la sua tradizione, per fargli smarrire la sua identità, per spezzare la sua dignità e la sua fierezza, la sua coscienza di sé, del suo diritto di esistere, del suo interesse collettivo, di tutto ciò che forma il suo orizzonte ideale? Il modo più sicuro è creare in lui, alimentare incessantemente, rafforzare con ogni strategia possibile un grande, schiacciante senso di colpa.  – il che è facile, quando si possiedono tutti gli strumenti dell’informazione, dell’educazione dei giovani e della cultura.

Si faccia attenzione che il senso di colpa non è la stessa cosa del rimorso. Il rimorso consiste nel rammarico e l’angoscia che nascono dalla coscienza di una cattiva azione; il senso di colpa non si riferisce a un singolo atto, né fa capo a un evento preciso, ma getta una fosca ombra sulle pure fonti della vita e crea una spirale distruttiva che divora tutto e non lascia neppure intravedere la benché minima speranza di redenzione o di riscatto, cosa invece sovente possibile, in un modo o nell’altro, nel rimorso. Un individuo tormentato dai sensi di colpa non concentra l’attenzione su ciò che ha fatto, ma su ciò che è: si sente indegno, immeritevole sia di perdono che di seguitare a vivere: pensa a se stesso come ad un essere che ha perso il diritto di stare al mondo, prova disgusto per il fatto di esserci; vorrebbe semplicemente sparire, annullarsi ed essere dimenticato da quanti lo conoscono. Se un simile stato d’animo diventa cronico, la persona finisce per suicidarsi o, comunque, per lasciarsi andare: si trascura, si abbandono all’ubriachezza o alla droga, cerca di dimenticare ogni cosa evadendo da sé stessa.

Non è facile immaginare un destino peggiore per un essere umano. E non è facile immaginare una strategia più diabolica di quella consistente nel creare e alimentare sensi di colpa in un altro individuo, magari facendo leva su delle colpe reali, continuamente rivangate e riportate alla lue, come quando si fa sgorgare il sangue da una piaga continuando ad aprirla e impedendole di rimarginarsi. Il fatto che si tratti di una situazione relativamente frequente, e per giunta creata da dinamiche profonde che non di rado non rispondono a una strategia consapevole, ma ad istinti comuni, come una madre che non vuole permettere al figlio di staccarsi da lei e perciò gli rinfaccia continuamente il parto difficile e doloroso con il quale l’ha messo al mondo, o magari il fatto che, per proteggerlo, si è separata da un marito che era un cattivo padre, votandosi così alla solitudine, tutto ciò attesta che il senso di colpa viene brandito come un’arma in numerose circostanze, e quindi anche la banalità del male. Infatti non c’è proporzione fra i vantaggi, sovente illusori, che esso offre a quanti se ne servono, e il male, la sofferenza, l’angoscia che si causano all’altro. Forse la moglie che di continuo rimprovera al marito il fatto che stava guidando ubriaco la sera in cui persero il loro figlioletto in un incidente d’auto, non vuole solo tenerlo legato a sé con gli arpioni del senso di colpa, ma anche punirlo e sfogare su di lui tutto il suo dolore per la perdita subita, non valutando la sterilità d’una tale vendetta e l’inutile crudeltà di una strategia che non le potrà restituire ciò che ha perso, né consentirle di razionalizzare il dolore e creare le condizioni per ritrovare qualche ragione per vivere.

Ora proviamo ad estendere questa riflessione ad un intero popolo. Per creare e alimentare in esso un forte senso di colpa, è necessario persuaderlo di essersi macchiato d’una gravissima colpa collettiva. Nella stria moderna, a differenza che nella stria medievale, ad ogni stato, di regola, corrisponde un popolo; e un popolo, dalla Rivoluzione francese in poi, è considerato come una comunità di cittadini soggetti alle leggi e depositari di diritti e doveri. Ciò che lo Stato pretende dal cittadino è stabilito dalle leggi: dalle leggi ordinarie in tempi normali, e dalle leggi d’eccezione in tempi di emergenza. La guerra è un tipico tempo di emergenza, ma ve ne sono anche altre forme: quando esso vige, il cittadino è sottoposto a un’autorità estremamente decisa, a volte brutale, che non ammette esitazioni o errori nell’esecuzione delle norme stabilite, e vigila con tutto il peso del suo apparato poliziesco affinché ogni cittadino si renda docile esecutore delle disposizioni emanate. Ad esempio un gesto banale come accendere la luce in casa diventa un crimine allorché, di notte, è in vigore l’oscuramento delle città, per non offrire un facile bersaglio ai bombardamenti aerei. Se poi le norme stabilite quando vige lo stato di emergenza sono giuste, razionali, efficaci, e soprattutto se sono etiche o no, non è possibile discuterlo, né viene ammessa alcuna forma di disobbedienza da parte del cittadino: infatti, lo stesso stato di emergenza giustifica la repressione di ogni comportamento che,  per qualsivoglia ragione, contrasti con le disposizioni emanate. Ci asteniamo dal fare esempi di norme assurde stabilite dal governo italiano nel corso della cosiddetta emergenza sanitaria scattata nel marzo del 2020 e prorogata oltre ogni limite di ragionevolezza e di buon senso, un mese dopo l’altro, per oltre due anni e mezzo, perché sarebbe troppo facile e assai malinconico, visto il clima di menzogna e imposizione tuttora vigente e l’assenza totale di qualunque ammissione di errore da parte delle autorità.

Per quanto riguarda la creazione del senso di colpa, ciò dipende da chi ha i mezzi e la volontà di crearlo: nel caso di una guerra, il vincitore. Le due guerre mondiali, specialmente la seconda, sono state guerre totali: logico quindi che l’esito di esse abbia visto non solo la debellatio della parte soccombente a livello politico, economico, giuridico (già a Versailles, nel 1919, i vincitori imposero ai vinti la firma di un documento che attribuiva a questi ultimi la responsabilità del conflitto), ma anche la prosecuzione di essa mediante una conquista, per così dire, dell’immaginario collettivo dei popoli sconfitti, e non solo dei rispettivi governi. Tale assoggettamento è stato poi prolungato nel tempo con lo strumento del cinema, della televisione, della stampa, dei fumetti e perfino dei giocattoli (in particolare i soldatini), che per oltre sette decenni hanno continuato a versare sale sulla piaga del senso di colpa e, nello stesso tempo, hanno offerto la possibilità, per i vincitori, di coltivare senza contraddittorio la propria mitologia autocelebrativa: il coraggioso marine americano o l’eroico l’aviatore britannico in lotta contro l’eterno tedesco sadico e, in sostanza, stupido, nonché contro il barbaro giapponese. Meglio sorvolare, per carità di patria, sull’immagine del soldato italiano che si ricava da tali fonti, specie presentando i fatti dell’8 settembre 1943: ma sta di fatto che tale immagine, largamente fruita anche dal pubblico italiano, ha contribuito non poco alla definizione della propria immagine negli italiani stessi (con buona pace della memoria storica sulle gesta eroiche di Alessandria d’Egitto, di Cheren, di Culqualber, di Bir el Gobi, di El Alamein e di Isbuscenskij).

È anche importante capire chi, esattamente, e a quale scopo, ha la possibilità e l’interesse di perseguire la colpevolizzazione del popolo vinto. È facile vedere che non si tratta dei governi, i quali non possiedono mezzi così sofisticati e soprattutto non necessariamente ne hanno una effettiva convenienza. Al contrario, nel caso degli angloamericani, bastarono loro pochi mesi per rendersi conto che il profilarsi della Guerra Fredda non consigliava di deprimere eccessivamente il morale degli sconfitti, dei quali avrebbero avuto presto necessità di servirsi in funzione antisovietica e, poco più tardi, anti-cinese. Abbiamo parlato di cinema, televisione, stampa, fumetti e giocattoli per bambini: la disponibilità di tali strumenti di propaganda, nelle democrazia, non appartiene allo Stato, ma alle industrie private, le quali, come le vicende dei decenni successivi hanno mostrato, sono sempre più controllate dal grande capitale finanziario. Giungiamo alla conclusione che, anche considerando le cose da questa particolare prospettiva, la Seconda guerra mondiale non è stata tanto un conflitto “classico” fra nazioni sovrane, ma un conflitto asimmetrico che vedeva alcune nazioni sovrane impegnate in una lotta per la vita e per la morte contro la grande finanza internazionale. La quale aveva già mostrato, con la grande crisi del 1929, di poter condizionare nella maniera più pesante la vita dei popoli, di tutti i popoli simultaneamente, senza che i singoli governi potessero reagire, se non in termini strettamente difensivi. In altre parole, il cuore del potere mondiale, specie dopo il 1918 (ma in parte anche prima) si era spostato e organizzato in maniera tale da poter agire ovunque secondo i propri scopi, senza dover temere alcun serio pericolo, data la propria natura sovranazionale e pressoché inafferrabile (a volte è difficile anche ad un governo capire dove si trovi la sede effettiva di una multinazionale che opera sul suo territorio). Come in certi film di fantascienza o, se si preferisce, come nella mitologia greca, gli stati moderni erano alle prese, come Ercole con l’Idra di Lerna, con un avversario dalle mille teste, che subito ricrescono dopo essere state tagliate; anzi, per essere più esatti, con un avversario estremamente pericoloso che però, da parte sua,  non si capisce nemmeno se e dove abbia la testa, dove il cuore, e perciò dove si trovi il suo centro vitale.

Ora, l’altra domanda: perché il potere finanziario dovrebbe avere l’interesse a prostrare il morale di un popolo, a iniettargli il veleno di uno schiacciante senso di colpa, e portarlo a odiare la propria identità, la propria storia e la propria stessa esistenza? E se qualcuno dubitasse che tali sono stati i fini perseguirti in Germania, e in parte anche in Italia, dopo il 1945, vuol dire che non ha compreso cosa sia il popolo tedesco oggi e, in una certa misura, lo stesso popolo italiano. La risposta è semplice: un popolo schiacciato dal senso di colpa è un popolo che di fatto non è più tale, perché moralmente disgregato e al quale sono state recisi le radici organiche, fatte dalle sue tradizioni e dal suo passato; esattamente come per il singolo individuo: se gli si toglie la memoria di ciò che era, si annienta la sua autocoscienza. E quando un popolo è disgregato e moralmente annientato, quando  non percepisce più se stesso come una comunità avviata verso un destino, ma solo come un aggregato materiale di bocche da sfamare e desideri da soddisfare, è molto più facile indurlo a fare qualsiasi cosa, ad adottare qualsiasi stile di vita, anche il più innaturale, aberrante e autodistruttivo; e a prestare cieca obbedienza a tutto ciò che i padroni occulti, tramite la televisione, la stampa, il cinema ecc. (oggi ci sono anche i giochi elettronici, molto più invasivi per la psiche dei “vecchi” giocattoli)  si degnano di trasmettergli. Per avere un’idea della terribile potenza di tali tecniche basti pensare che nel giro di una trentina di mesi, a partire dal marzo del 2020, esse sono riuscite a distruggere la comune nozione di ciò che è scienza, sostituendo alla libera ricerca e al dibattito degli esperti, le quotidiane litanie antiscientifiche di falsi esperti; e a sovvertire le nozioni e i sentimenti più basilari della morale, come il rispetto per i morti e il dovere di celebrare degnamente le loro esequie funebri.

A tale proposito ci piace prendere in esame la posizione assunta dal filosofo Karl Jaspers, il quale durante la Seconda guerra mondiale era in Svizzera, docente presso l’Università di Basilea, per poi passare, al termine del conflitto, all’Università di Heidelberg, così come egli la espresse “a caldo” in un ciclo di lezioni del 1946, poi pubblicate con il titolo La questione della colpa, nell’esposizione riassuntiva, e nel complesso obiettiva, che ne fa Amedeo Vigorelli nel manuale I libri di Dialogos (A.A. V.V., vol. F, La filosofia contemporanea, Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, 2001, pp. 424-427):

«Il tedesco, chiunque egli sia, oggi nel mondo viene considerato come qualcuno con cui nessuno vorrebbe avere a che fare. […] In conseguenza di questa maniera collettivistica di pensare, la responsabilità politica viene nello stesso tempo fondata, come punizione, sulla colpa morale.»

Ma è corretto questo modo di pensare? Si possono semplicemente identificare la responsabilità e la colpa morale, i crimini individuali e le responsabilità collettive? Jaspers comincia infatti con il distinguere quattro diverse categorie di “colpa”: giuridica, politica, morale, metafisica. La prima, ossia la COLPA CRIMINALE, riguarda gli eventuali delitti commessi dai singoli e penalmente perseguibili. L’”istanza” è qui il tribunale, «il quale stabilisce precisamente, con una procedura formale, gi stati di fatto, e vi applica le leggi». La COLPA POLITICA comprende sia le «azioni degli uomini di stato», sia la responsabilità che discende dall’«essere cittadini di uno stato, per cui si è costretti a subire le conseguenze di questo stato, alla cui autorità si è sottoposti e al cui ordinamento si deve la propria esistenza». Ciascuno pota infatti una parte di responsabilità riguardo al modo in cui viene governato. La democrazia ci rende tutti responsabili e quindi, negli errori, colpevoli (non dimentichiamo che Hitler andò al potere in Germania con libere elezioni). L’”istanza” giudicatrice è in questo caso «la forza e la volontà del vincitore nella politica interna come nella politica estera. Quel che decide è il successo».

La COLPA MORALE è, di nuovo, individuale: «uno ha la responsabilità morale per quelle azioni che compie come individuo». Anche nel caso delle azioni di ordine politico e militare, non vale come scusante il fatto di aver obbedito agli ordini superiori. L’azione singola resta sottoposta al giudizio morale: «l’”istanza” è qui la PROPRIA COSCIENZA e la comunicazione con gli amici e le persone più care, con coloro che ci amano e si interessano della nostra anima». Vi è infine un altro tipo di colpa, anch’essa di ordine collettivo: quella metafisica. Per COLPA METAFISICA Jaspers intende quella che discende dal senso di SOLIDARIETÀ che ci unisce a tutti i nostri simili. Esso fa sì che «ciascuno sia in un certo senso corresponsabile per tutte le ingiustizie e i torti che si verificano nel mondo, specialmente per quelle ingiustizie che hanno luogo in sua presenza o con la sua consapevolezza». Ciascuno di noi deve sentirsi colpevole «quando non fa tutto il possibile per impedirli». Jaspers è consapevole del rischio a cui si espone introducendo questo concetto metafisico. Come tale, esso può apparire «il pensiero malinconico di un filosofo», qualcosa che «non esiste». Viceversa, esso è per lui qualcosa di concreto, con delle precise radici “sentimentali” nella vita sociale e collettiva, che assume a fondamento il comune sentire, la compassione di fronte al dolore sofferto da altri, la SOLIDARIETÀ TRA TUTTI I VIVENTI E I SOFFERENTI. (…)

Servendosi di queste distinzioni, Jaspers propone ai tedeschi un esame di coscienza collettivo, che riguardi il nazismo e (implicitamente) le responsabilità dell’Olocausto. Le conclusioni cui conduce un esame obiettivo sono per Jaspers le seguenti: «Ogni tedesco, senza eccezione, ha la sua parte di responsabilità politica». Vi sono stati naturalmente diversi gradi di coinvolgimento (…). Non è tuttavia sufficiente che i tedeschi ammettano la loro responsabilità politica collettiva (quella in fondo più anonima e generica, secondo il detto comune: «tutti colpevoli, nessun colpevole») e subiscano pazientemente le sanzioni economiche e politiche che i vincitori hanno il diritto di imporre loro. La sanzione, perché sia efficace, non deve limitarsi a colpire le risorse materiali dei tedeschi, lasciando immodificato il loro interno modo di pensare. Occorre piuttosto che essi avvertano collettivamente la responsabilità politica del nazismo, riformando interiormente lo stato e la democrazia. (…) È fuori di dubbio – per Jaspers – che «ciascun tedesco, sebbene in condizioni differenti, trova l’occasione per far l’esame della propria coscienza dal punto di vista morale». (…) Fino a che punto, per esempio, si sapeva in Germania dei campi di concentramento e della loro reale funzione? Quanti tedeschi erano coinvolti, direttamente o indirettamente, nel sistema di sfruttamento del lavoro schiavistico imposto a ebrei e oppositori? Fino a che punto certe realtà erano note e fino a che punto, invece, si preferiva “non sapere” o “non credere” a quel che veniva detto? L’antisemitismo era un sentimento diffuso e persino legittimato dalla fede religiosa (sia tra i luterani sia tra i cattolici): fino a che punto certi atteggiamenti di ostilità, quando non di aperta persecuzione, perfino certi giudizi ironici o satirici sugli ebrei, sono da ritenere moralmente “innocenti”, di fronte al fatto dell’Olocausto? (…)

Ma vi è infine la colpa metafisica. È certo che «ogni tedesco che comprende, nelle esperienze metafisiche di tali sciagure, trasforma la propria coscienza dell’essere e di se stesso». (…)

Giungiamo alla parte forse più interessante dell’analisi di Jaspers, che riguarda il rapporto tra le colpe dei padri e quelle dei figli. I tedeschi hanno un forte senso di appartenenza culturale al proprio passato e alle proprie tradizioni. Tutto ciò che compie il singolo tedesco si riporta, attraverso sottili e complessi legami, all’”anima tedesca”. Chi non ha vissuto nella sua vita – si chiede Jaspers - «il momento in cui, disperando e opponendosi al proprio popolo, ha detto a se stesso: io sono la Germania; o in cui, in accordo esultante con esso, ha esclamato: anche io sono la Germania!». Non si tratta di trasformare oggi questo legittimo senso di appartenenza culturale al proprio popolo e alla nazione in un senso di colpa collettivo. Non si deve cadere vittime (come avrebbe detto Nietzsche) della «volontà di vendetta» di un passato avvertito come immodificabile, come peso irredimibile. Così come non ci si deve liberare dal senso di colpa con un generico atto di accusa collettivo. (…) «È il compito di non essere tedeschi così come ci troviamo ad essere, ma di diventare tedeschi come non siamo ancora ma abbiamo il dovere di essere, e come ci sentiamo incoraggiati a diventare dalla voce dei nostri grandi avi, e non già dalla storia dei nostri idoli nazionali». Solo rinnovando il passato si può preparare il futuro; solo assumendo attivamente, e non passivamente, la propria eredità nazionale, si può contribuire al progresso dell’umanità. (…)

A quanto pare, per liberarsi dalla loro colpa metafisica, i tedeschi devono cessare di essere tedeschi così come lo sono stati finora: devono diventare dei tedeschi tutti nuovi, rifatti, rivisti e corretti alla luce delle loro inespiabili colpe, e quindi dar vita a un popolo nuovo, eticamente e spiritualmente rigenerati da una radicale abiura collettiva nei confronti di ciò che erano e una immersione purificatrice nelle acque della storia, dalla quale uscire mondati ed esorcizzati, così da poter essere riaccolti nel consorzio civile, dal quale avevano meritato di venire espulsi per assoluta indegnità morale. Con un funambolico giro di parole, Jaspers, filosofo assai mediocre ma, in compenso, grande dialettico e maestro della parola, riesce ad esprimere l’indicibile: che per avere il diritto di continuare a esistere senza che il mondo itero sputi loro addosso, i tedeschi devono fare un gigantesco karakiri culturale, ripudiare il loro passato e abbeverarsi non agli idoli della storia recente, ma ai loro grandi uomini del passato.

Concetto intrinsecamente contraddittorio, visto che Jaspers ha elencato le colpe razziste del popolo tedesco risalendo indietro nel tempo e ponendo sia i protestanti che i cattolici davanti alla loro parte di responsabilità nella nascita di un diffuso sentimento antisemita. Certo, per Lutero sarebbe facile sciorinare le frasi terribili scagliate contro gli ebrei, nei confronti dei quali aveva giustificato ogni sorta di repressione e di rigore da parte dei principi e del popolo tedesco, con la sola eccezione dell’assassinio: la confisca dei beni, la cacciata materiale, eccetera; un po’ meno facile sarebbe mostrare quando e come i cattolici, la cui chiesa, al contrario, ha sempre cercato di dare protezione agli ebrei in tempi di agitazioni popolari, sarebbero rei di colpe altrettanto gravi. Sia come sia: se i tedeschi sono sempre stati antisemiti; se hanno scherzato un po’ troppo, con battute ironiche e satiriche, sugli ebrei, creando così i presupposti per la tragedia dell’epoca nazista (?), come si può poi sostenere che i tedeschi devono tornare a essere se stessi, guardando ai loro grandi uomini del passato?

La strada tracciata da Jaspers è una strada senza ritorno: indicando come complici e corresponsabili del genocidio anche i comuni cittadini che si sono permessi, nel corso dei secoli, di adoperare espressioni ironiche o satiriche verso gli ebrei, quale capitolo o quale ambito della loro storia si potrà salvare dal peso di una tremenda e irremissibile responsabilità collettiva? E che fare di un ebreo famoso come Karl Marx, che giudizio dare su di lui, allorché, parlando del socialista ebreo Ferdinand Lassalle, definiva quest’ultimo a Jewish Nigger, cioè un negraccio ebreo, ostentando un duplice razzismo, verso gli africani e verso gli ebrei; e aggiungendo, per buona misura, affinché non vi fossero dubbi sulla natura biologica, razziale, della sua antipatia (dalla lettera di Marx a Engels del 30 luglio 1862):

Mi appare ora assolutamente chiaro che, come dimostrano tanto la forma della sua testa che la struttura dei suoi capelli, discende dai negri che presero parte alla fuga di Mosè dall’Egitto (a meno che sua madre o sua nonna dal lato paterno non abbiano un’ibridazione con un negro (…), l’indiscrezione con la quale si fa avanti è anche tipicamente negresca. Il negraccio giudeo, un ebreo untuoso che si dissimula impomatandosi e agghindandosi  di paccottiglia dozzinale. Ora questa mescolanza di giudaismo e germanesimo con un fondo negro  debbono dare un bizzarro prodotto!

Non male, vero? Ah, scordavamo una cosa: che Marx, come ebreo, può dire tutto il male possibile degli ebrei: è solo il suo brutto carattere e una certa  intemperanza nel dare giudizi; mentre le stesse cose, anzi delle cose infinitamente meno pesanti, dette da un non ebreo, ma con la stessa intenzione denigratoria, sarebbero il segno inequivocabile d’un profondo e radicato antisemitismo e, come tali, andrebbero messe sul conto di quella responsabilità metastorica o colpa metafisica che si accumula, generazione su generazione, allorché i tedeschi si esprimono in termini che non siano politicamente irreprensibili sugli ebrei. Gira e rigira, il problema è sempre quello, e si è posto a partire dal 1945, non prima, assumendo proporzioni e connotazioni sempre più avulsi dal piano storico e sempre più vicini alla sfera del sacro: poiché gli ebrei d’Europa hanno vissuto un’ora tragica dopo che Hitler è andato al potere e la Germania nazista ha conquistato molti Paesi nei quali vi erano delle comunità ebraiche, è divenuto impossibile, in quanto equiparabile a un sacrilegio, parlare di essi con un linguaggio dal quale non sia espunta ogni pur minima sfumatura, non diciamo di critica o di riserva, ma anche  qualunque cosa che non suoni come una piena e incondizionata adesione anticipata (e in certo qual senso retroattiva) a qualsiasi cosa essi dicano, o meglio dica quella minoranza di essi che ha fatto dello sfruttamento di quel dramma la sua finalità politica (si veda il libro dello storico ebreo Norman Finkelstein L’industria dell’Olocausto: lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, apparso nel 2000).

Inutile, quindi, portare il discorso su un piano storico, o anche su quello della “normale” filosofia morale, come dichiara di voler fare Karl Jaspers, il quale, avendo sposato un’ebrea e perciò ben conoscendo certi aspetti della psicologia ebraica, certo sapeva di che parlava Nietzsche allorché introduceva il concetto della volontà di vendetta;  anche se poi lui, Jaspers, afferma di non voler addossare al popolo tedesco il fardello di un senso di colpa generalizzati e permanente. Dopo aver osservato, e a ragione, che pochi altri popoli, come il popolo tedesco, sentono il legame con le generazioni precedenti, e sono fieri della loro tradizione e della loro identità, possibile che non veda come la sua proposta di vedere i tedeschi cancellare spontaneamente la realtà di ciò che attualmente sono, per crearsi una identità nuova, che li mondi delle brutture del passato, equivale, in effetti, in tutto e per tutto, ad un auto-annichilimento, ad un’auto-castrazione e, in definitiva, ad un suicidio culturale e spirituale di tutto un popolo? Oppure egli ritiene che un popolo possa strappare via da sé un certo aspetto del proprio passato, lasciando intatto tutto il resto? Sarebbe come pretendere da un uomo che strappi via dai suoi ricordi tutte le cose che a un certo punto della sua vita giudica brutte o spiacevoli, senza con ciò strappare anche i bei ricordi, le esperienze gratificanti, i momenti felici. È semplicemente impossibile: e se lo è per un singolo individuo, figuriamoci per un popolo. Un popolo che, nel 1945, era prostrato, e viveva in mezzo alle rovine delle case e delle città, sotto le quali erano periti, bruciati vivi con le bombe a fosforo, i loro cari; che non aveva più nulla, né industria, né agricoltura, né commercio, onde poter sopravvivere e sperare qualcosa dal futuro; dove le figlie e le madri di famiglia dovevano prostituirsi ai soldati degli eserciti occupanti, per portare  a casa un po’ di cibo per i figli e i mariti; e dove circa otto milioni di connazionali mancavano all’appello perché erano stati sterminati nel corso dell’avanzata dell’Armata Rossa, o erano periti negli inumani campi di prigionia dei vincitori; mentre altri milioni di connazionali erano stati brutalmente scacciati dalle terre nelle quali vivevano, non dall’ascesa al potere di Hitler, ma da generazioni e generazioni: in Polonia, Cecoslovacchia, Russia, secondo i nuovi confini stabiliti unilateralmente dalle potenze vincitrici. E questo mentre i tribunali degli occupanti processavano e condannavano all’impiccagione decine di uomini politici e militari del caduto regime, e sia le democrazie che l’Unione Sovietica, i cui crimini non erano inferiori a quelli nazisti, vigilavano affinché venissero allontanati dal lavoro, giudicati e condannati quanti avevano avuto a che fare con esso, e venissero radicalmente rieducati tutti gli altri, nessuno escluso: perché se il popolo tedesco non aveva il diritto di scindere le proprie responsabilità da quelle del regime nazista, allora neanche i poppanti potevano essere considerati esenti dalla colpa collettiva.

A conclusione (provvisoria) del nostro discorso, vorremmo rispondere anticipatamente a quanti volessero obiettarci  di aver voluto minimizzare, e quasi banalizzare, il dramma vissuto dagli ebrei durante il nazismo. Rispondiamo che il fine della presente riflessione era quello d’illustrare, mediante un caso specifico, i meccanismi e gli scopi per i quali il potere può trovare utile alimentare il senso di colpa in un popolo itero, sfruttando le responsabilità del suo governo e della sua classe dirigente. Da parte nostra, massimo rispetto per le vittime di ogni persecuzione (verso le vittime, si badi: non verso i nipoti e i pronipoti, in saecula saeculorum), e ciò vale ovviamente anche per ciò che ormai è divenuto uso comune chiamare Olocausto, ma che non si dovrebbe chiamare così, per i riflessi sacrali e teologici della parola. Anche l’accostamento coi decreti varati dai governi odierni in occasione e col pretesto dell’emergenza sanitaria non ha nulla d’irrispettoso verso ciò che soffrirono gli ebrei: il paragone non è fra le rispettive sofferenze delle vittime (benché sospettiamo che nelle odierne inoculazioni di massa, specie dei bambini, si celi un’intenzione genocida), ma fra le rispettive finalità e strategie del potere: creare un senso di colpa che distrugga l’anima dei popoli.

 

 

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