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È ingiustizia dare agli altri più del dovuto?

francesco lamendola Jul 12, 2022

di Francesco Lamendola

È comunemente ammesso, sulla scia di Aristotele, ma anche di san Tommaso d’Aquino, che praticare la giustizia significa dare a ciascuno quello che gi è dovuto; commettere ingiustizia, invece, non darglielo.

Si pone tuttavia una domanda, e già Aristotele se l’era posta: come si deve giudicare l’atto di dare agli altri più di quello che è ad essi dovuto e più di quanto, legittimamente, possono attendersi di ricevere?

Scrive Aristotele, a questo proposito, nel quinto libro dell’Etica a Nicomaco (cit. dal sito: https://www.filosofico.net/eticaanicomaco5.htm):

 

Poiché l’uomo ingiusto, e così ciò che è ingiusto, non rispetta l’uguaglianza, è chiaro che c’è anche qualcosa di mezzo tra gli estremi disuguali. E questo è l’uguale, giacché in ogni tipo di azione in cui ci sono il più ed il meno c’è anche l’uguale. Se, dunque, l’ingiusto è il disuguale, il giusto è l’uguale; cosa che tutti riconoscono anche senza bisogno di un ragionamento. Ma poiché l’uguale è medio, il giusto dovrà essere un certo tipo di medio. Ma l’uguale presuppone almeno due termini. Pertanto, necessariamente, il giusto è insieme medio e uguale, e relativo, cioè è giusto per certe persone; e, in quanto è medio, è medio tra certi estremi (e questi sono il più e il meno); in quanto, invece, è uguale, è uguaglianza di due cose; in quanto è giusto, lo è per certe persone. Il giusto, quindi, implica necessariamente almeno quattro termini: infatti, le persone per le quali il giusto è tale  sono due, e due sono le cose in cui si realizza. E l’uguaglianza dovrà essere la stessa, tra le persone come tra le cose: infatti, il rapporto tra le cose deve essere lo stesso che quello tra le persone. Se queste, infatti, non sono uguali, non avranno cose uguali; ma le lotte e le recriminazioni è allora che sorgono: o quando persone uguali hanno o ricevono cose non uguali, o quando persone non uguali hanno o ricevono cose uguali. Questo risulta chiaro anche dal principio della distribuzione secondo il merito. Tutti, infatti, concordano che il giusto nelle distribuzioni deve essere conforme ad un certo merito, ma poi non tutti intendono il merito allo stesso modo, ma i democratici lo intendono come condizione libera, gli oligarchici come ricchezza o come nobiltà di nascita, gli aristocratici come virtù. In conclusione, il giusto è un che di proporzionale. Infatti, la proporzionalità è una proprietà non solo del numero astratto, ma anche del numero in generale: la proporzione è un’uguaglianza di rapporti, e implica almeno quattro termini. (…)

Delle questioni che ci siamo proposti ne restano ancora due da discutere: se commette ingiustizia chi attribuisce ad un altro più di quanto merita oppure chi riceve più di quanto merita, e se è possibile commettere ingiustizia verso se stessi. Se, infatti, è possibile quello che si è detto prima ed è colui che attribuisce più del dovuto che commette ingiustizia e non chi lo riceve, nel caso in cui uno attribuisca ad un altro più che a se stesso, consapevolmente e volontariamente, questi  commette ingiustizia verso se stesso: e ciò la gente pensa che facciano gli uomini misurati, giacché l’uomo virtuoso è incline ad attribuirsi di meno di quello che gli spetta. O dobbiamo dire che neppure questa è una cosa semplice? Infatti, se capita l’occasione, un uomo virtuoso può prendersi la parte più grande di un altro tipo di bene, per esempio di gloria o di ciò che è bello in senso assoluto. Il problema si risolve se si segue la definizione data del commettere ingiustizia; l’uomo virtuoso, infatti, non subisce ingiustizia, almeno non per questa ragione, ma tutt’al più subisce soltanto un danno. Ma è chiaro che anche chi compie l’attribuzione può commettere ingiustizia, ma non la commette chi riceve il di più: infatti, non è colui al quale capita la cosa ingiusta che commette ingiustizia, ma colui che la fa volontariamente: cioè la persona da cui ha principio l’azione, principio che si trova, in questo caso, in chi attribuisce il di più, non in chi lo riceve. Inoltre, poiché "fare" si dice in molti sensi  e poiché è possibile dire che gli oggetti inanimati (per esempio, la mano e lo schiavo cui è stato ordinato) uccidono, chi riceve di più di quanto gli spetti non commette ingiustizia, ma tutt’al più fa cose ingiuste. Inoltre, se uno giudica in stato di ignoranza, non commette ingiustizia nei confronti della giustizia legale, e il suo giudizio non è ingiusto da questo punto di vista, ma in un certo senso lo è: il giusto legale, infatti, è altro dal giusto originario. Se invece giudica ingiustamente  pur avendo cognizione di causa, anch’egli prende di più di quanto gli spetti o di gratitudine o di vendetta. Così, dunque, anche chi per questo ha giudicato ingiustamente viene ad avere di più, come uno che si prendesse una parte del frutto dell’ingiustizia: ed infatti, aggiudicando un campo a quelle condizioni, non riceve un campo ma del denaro.

 

Dunque il problema della giustizia distributiva c’è, eccome: al punto che Aristotele si chiede se a commettere ingiustizia sia solo chi dà all’altro più del dovuto, o anche chi lo riceve. E conclude che quest’ultimo non commette ingiustizia, perché riceve il frutto dell’azione ingiusta, ma non è l’autore di essa.

E san Tommaso d’Aquino nella Somma Teologica (seconda parte della seconda parte, questione 58, articolo 11; traduzione di p. Tito Centi, cit. da http://www.documentacatholicaomnia.eu/03d/1225-1274,_Thomas_Aquinas,_Summa_Theologiae_(p_Centi_Curante),_IT.pdf):

 

Articolo 11: Se l‘atto della giustizia consista nel rendere a ciascuno il suo.

 Pare che l‘atto della giustizia non consista nel rendere a ciascuno il suo. Infatti:

  1. S. Agostino [De Trin. 14, 9] attribuisce alla giustizia «il soccorrere gli indigenti». Ma nel soccorrere gli indigenti non diamo la roba che appartiene ad essi, bensì la roba nostra. Perciò l‘atto della giustizia non consiste nel dare a ciascuno il suo.
  2. Secondo Cicerone [De off. 1, 7] «la beneficenza, che possiamo chiamare benignità o liberalità», appartiene alla giustizia. Ma la liberalità ha il compito di offrire agli altri la roba nostra, e non ciò che appartiene ad essi. Quindi l‘atto della giustizia non sta nel rendere a ciascuno il suo.
  3. Spetta alla giustizia non soltanto distribuire [beni o punizioni] nel debito modo, ma anche reprimere le azioni ingiuriose, come l‘omicidio, l‘adulterio e altre cose del genere.

Ora, rendere a ciascuno il suo pare limitarsi alla sola distribuzione di determinate cose. Quindi non viene indicato in modo esauriente l‘atto della giustizia se si afferma che esso consiste nel rendere a ciascuno il suo.

In contrario: S. Ambrogio [De off. 1, 24] afferma: «La giustizia è quella virtù che dà a ciascuno il suo, che non esige l‘altrui e che sacrifica il proprio vantaggio per il bene comune».

Dimostrazione: La materia della giustizia, come si è detto [aa. 8, 10], è costituita dalle azioni esterne in quanto esse, o le cose di cui ci serviamo con esse, sono adeguate ad altri individui verso i quali siamo ordinati mediante la giustizia. Ora, si dice proprio di ciascun individuo ciò che a lui è dovuto secondo una certa uguaglianza di rapporti. Perciò l‘atto specifico della giustizia non consiste se non nel rendere a ciascuno il suo.

Analisi delle obiezioni:

1 Essendo la giustizia una virtù cardinale, essa è accompagnata da altre virtù secondarie, come la misericordia, la liberalità e altre virtù del genere, di cui parleremo in seguito [q. 80]. Perciò il soccorrere gli indigenti, che appartiene alla pietà o misericordia, e il beneficare con munificenza, che appartiene alla liberalità, vengono attribuiti per riduzione alla giustizia come alla virtù principale.

  1. È così risolta anche la seconda obiezioni.
  2. Come nota il Filosofo [Ethic. 5, 4], qualsiasi superfluo in materia di giustizia per estensione viene detto lucro, e qualsiasi minorazione viene detta danno. E ciò perché la giustizia viene esercitata prima di tutto e più universalmente nelle permute volontarie dei beni, cioè nelle compravendite, alle quali questa nomenclatura si addice in senso proprio, e da esse poi si estende a tutto ciò che può essere oggetto di giustizia. E la stessa cosa vale per l‘espressione: rendere a ciascuno il suo.

 

Dunque, per san Tommaso la giustizia consiste nel rendere a ciascuno il suo, secondo una certa eguaglianza di rapporti: introducendo un nuovo concetto, il concetto di eguaglianza; e inoltre afferma che chi la compie deve essere disposto anche a sacrificare qualcosa del proprio in vista di un bene più grande, che è il bene comune. Il che introduce un terzo concetto, ossia che la giustizia ha a che fare con la stabilità sociale e si integra con lo sforzo costante di curare il bene di tutti e non solo di un certo individuo.

Pare dunque che dare a qualcuno più di quel che costui merita vada contro la giustizia e possa offendere gli altri, quelli che hanno ricevuto lo stretto pattuito o comunque lo stretto che era dovuto loro e che ragionevolmente potevano aspettarsi di ricevere. Qui a ben guardare entra in campo un quarto concetto nuovo, quello dell’aspettativa: è innegabile infatti che esiste una certa aspettativa nei confronti di ciò che si è in diritto di ricevere, e che tale aspettativa sia condizionata da ciò che in precedenza hanno ricevuto gi altri. Se gli altri hanno ricevuto più di quanto era lecito attendersi, chi viene dopo alza il livello della propria aspettativa e s’immagina che anche lui riceverà di più, specie se ha lavorato di più o se ha maggiormente contribuito alla realizzazione di una certa opera. E se ciò non accade si sentirà defraudato, anche se, a rigore, nessuno gli ha fatto torto allorché costui riceve, invece, né più né meno di quanto gli spettava.

E adesso consideriamo la parabola evangelica dei lavoratori a giornata e della loro ricompensa, narrata in Matteo, 20, 1-16:

 

1 «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa, il quale uscì di mattino presto per assumere dei lavoratori per la sua vigna. 2 Accordatosi con i lavoratori per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna3 Uscito di nuovo verso l'ora terza, ne vide altri che se ne stavano sulla piazza disoccupati 4 e disse loro: "Andate anche voi nella vigna e vi darò quello che è giusto". Ed essi andarono. 5 Poi, uscito ancora verso la sesta e la nona ora, fece lo stesso. 6 Uscito verso l'undicesima, ne trovò degli altri che se ne stavano là e disse loro: "Perché ve ne state qui tutto il giorno inoperosi?" 7 Essi gli dissero: "Perché nessuno ci ha assunti". Egli disse loro: "Andate anche voi nella vigna". 8 Fattosi sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: "Chiama i lavoratori e da' loro la paga, cominciando dagli ultimi fino ai primi". 9 Allora vennero quelli dell'undicesima ora e ricevettero un denaro ciascuno. 10 Venuti i primi, pensavano di ricevere di più; ma ebbero anch'essi un denaro per ciascuno. 11 Perciò, nel riceverlo, mormoravano contro il padrone di casa dicendo: 12 "Questi ultimi hanno fatto un'ora sola e tu li hai trattati come noi che abbiamo sopportato il peso della giornata e sofferto il caldo". 13 Ma egli, rispondendo a uno di loro, disse: "Amico, non ti faccio alcun torto; non ti sei accordato con me per un denaro? 14 Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare a quest'ultimo quanto a te. 15 Non mi è lecito fare del mio ciò che voglio? O vedi tu di mal occhio che io sia buono?" 16 Così gli ultimi saranno primi e i primi ultimi».

 

È indubbio che questo brano, staccato dal contesto e “assolutizzato”, suscita in noi un’impressione penosa, d’imbarazzo e di disagio: da un lato ci chiediamo se qualcosa non ci stia sfuggendo per poterlo comprendere nel suo vero significato; dall’altro siamo tentati di alimentare in noi il sentimento della superbia intellettuale e della auto-giustificazione morale, per cui ci sembra chiaro che la parabola ha qualcosa di “sbagliati” perché, appunto, sembra contraddire il nostro istintivo, elementare senso della giustizia. Come si fa a dare agli ultimi operai arrivati, che hanno lavorato pochissime ore, la stessa paga di tutti gli altri, anche di quelli che hanno faticato nella vigna sin dalle prime ore del mattino? Certo, il padrone può fare del proprio denaro quello che vuole; e inoltre è vero che non ha frodato alcuno, perché ha distribuito la paga secondo quanto pattuito al momento dell’ingaggio: eppure noi sentiamo, e Aristotele pare confermarcelo, che giustizia non è solo dare a ciascuno il suo, ma anche distribuire equamente ciò che è dovuto, e non in maniera arbitraria e capricciosa.

Si esce dalla difficoltà solo collocando la parabola degli operai nel contesto più ampio del costante richiamo di Gesù all’amore del Padre per tutti suoi figli, specialmente per quelli che si erano smarriti e sembravano perduti, ma poi, all’ultimo minuto, si sono ravveduti e sono tornati a Lui, come nella parabola del figlio prodigo, della quale abbiamo già parlato diverse volte. Gli operai che si mettono a lavorare nel pomeriggio inoltrato sono come le pecorelle smarrite che ritrovano la strada dell’ovile dopo essersene allontanate pericolosamente: mostrandosi generoso con loro, il padrone vuole esprimere la sua gioia perché si sono salvate, mentre sembravano perdute. Ora, il premio di chi segue Gesù Cristo è la vita eterna: e la vita eterna non si può godere in misura maggiore o minore, è uguale per tutti. Pertanto la reazione di scontento degli operai assunti per primi, e la brusca risposta del padrone, sono in relazione, ancora una volta, con l’esclusivismo e il legalismo degli scribi e dei farisei, contro i quali tante volte Gesù si è espresso con toni e giudizi estremamente severi. Come nel caso del figlio maggiore, la loro indignazione non nasce da un sentimento della giustizia offeso, ma dal dispetto di vedere che il regno di Dio è offerto in premio anche ai pubblicani e alle prostitute, beninteso pentiti (e questa condizione è essenziale), nonché, horribile dictu, ai pagani, gl’impuri per eccellenza: quelli nelle cui case non si doveva nemmeno entrare per non contaminarsi.

Più in generale, bisogna stare molto attenti quando si pretende di trasferire su Dio le umane categorie morali, comprese quelle di giustizia e ingiustizia. Prima di accusare d’ingiustizia il Padre che si è mostrato particolarmente benevolo verso alcune anime più bisognose, bisogna riflettere che Dio è la somma sapienza e che pertanto vede ciò che gli uomini non vedono, ossia ciò vi è realmente al fondo delle anime. Ogni anima è un mistero per gli altri uomini: solo Dio vi legge chiaramente come in un libro aperto. Pertanto, Lui solo sa cosa sia veramente giustizia, se giustizia è non solo dare, con precisione aritmetica, a ciascuno il suo, ma anche tener conto dei meriti personali, come nel caso dell’obolo della vedova, il quale, pur modesto in sé, era in proporzione assai più generoso di quello dei ricchi. In altre parole, la giustizia di Dio è inseparabile dall’amore, è una cosa sola con l’amore: mentre gli uomini, nella loro limitatezza e, talvolta, nel loro meschino letteralismo, li separano eccome, e parlano dell’una o dell’altro a secondo che convenga loro, ma raramente li considerano insieme.

 

 

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