Infanticidio e aborto: perché due pesi due misure?
Nov 14, 2023di Universitari per la Vita
Il 4 novembre scorso i carabinieri di Bergamo hanno arrestato la ventisettenne Monia Bortolotti con l’accusa di duplice infanticidio: secondo gli inquirenti, avrebbe soffocato i suoi due figli, a distanza di un anno l’uno dall’altro. Dapprima, la figlia Alice di quattro mesi, il 15 novembre 2021 e poi Mattia di due mesi, il 25 ottobre 2022. Si era inizialmente pensato a morti naturali ma, a seguito dell’autopsia effettuata sul corpo del più piccolo, si è rilevato che era morto a seguito di «una asfissia meccanica acuta da compressione del torace». Il movente sembrerebbe essere «nell’incapacità della madre di reggere alla frustrazione del pianto prolungato dei bambini». Se le accuse fossero confermate, chiunque riconoscerebbe di essere di fronte ad un duplice, efferato delitto.
Un sacrosanto orrore pervade gli animi di coloro che assistono ad atrocità di questo genere. Ciononostante, tale orrore nasce dal fatto che questi bambini non solo erano innocenti ma anche già nati. Buona parte delle persone che giustamente rilevano questa atrocità, non avrebbero avuto alcun problema a riconoscere nella donna un “diritto” ad uccidere i propri figli, posto che si trovassero ancora nel grembo materno. Ma da dove nasce questo pensiero così apparentemente contraddittorio? Com’è possibile che le persone avrebbero potuto chiamare “diritto” invece che “delitto” il medesimo atto di porre fine alle vite di Alice e Mattia se solo quei “quattro e due mesi” fossero stati il periodo di gestazione e non l’età anagrafica? Sembrerebbe un insondabile mistero. Eppure, la spiegazione risiede nella cultura abortista contemporanea. Tale cultura de-umanizza il concepito (a) riducendolo alla sua mera componente biologica cellulare e/o (b) declassandolo di valore rispetto alla madre, così che sia possibile legittimare l’atto abortivo. Questo increscioso episodio di cronaca nera ci offre uno spunto per indagare le radici di questo errore.
Ci viene in aiuto il filosofo Romano Amerio, che nel suo approfondito studio Iota Unum sulle variazioni della Chiesa Cattolica nel secolo XX (Lindau, Torino 2009, pp. 379ss), osserva come fra i primi ad impugnare la verità dell’individualità umana dello zigote, vi furono gli esponenti della Chiesa metodista degli Stati Uniti. Secondo loro, prima della nascita, «il feto è un tessuto e non un individuo e quindi asportabile come per le ragioni terapeutiche si asporta un ammasso cellulare». Teoria ripresa poi dal movimento femminista.
La tesi risale in realtà addirittura a Tertulliano (155-230 d.C.) che ne parlò nel De anima e fu condannata dal papa Innocenzo XI (1611-1689) al n. 1185 del Denzinger. La proposizione condannata era la seguente: «Sembra probabile che ogni feto (finché è nel grembo materno) sia privo di anima razionale e cominci ad averla nel momento in cui nasce; e di conseguenza bisognerà dire che in nessun aborto viene commesso alcun omicidio». Tuttavia, proseguiva Amerio, «l’opposta verità biologica è invincibile. L’embrione è ab initio un individuo. Se sembra indifferenziato e senza individualità è perché non si oltrepassano le misure macroscopiche e non si osserva al debito ingrandimento». A tal proposito, il filosofo cita gli interessanti risultati delle ricerche del prof. Erich Blechschmidt (1904-1992), embriologo dell’Università di Gottinga: egli aveva fatto settecento sezioni di un embrione di 7 mm e trattene duemila fotografie: da ciò emerse che l’embrione risulta differenziato ad ogni livello (E. Blechschmidt, Come inizia la vita umana, Stein am Rhein 1976, p. 11).
Sappiamo che le idee passano anche attraverso il linguaggio ed è per questo che Amerio mette in guardia soggiungendo che «è inesatto dire che da un uovo umano fecondato si genera sempre un uomo: non si genera, ma è uomo, e l’esistenza sua inizia nell’istante in cui parti vive di due animali staccatesi dagli animali si uniscono individuandosi». Purtroppo, questi errori sono stati sostenuti, a più riprese, dai Gesuiti francesi negli anni ’70. È stato già ricordato, in un precedente articolo, come le tesi del padre Bruno Ribes, direttore della rivista gesuita “Les Études” dal 1965 al 1975, hanno dato un grande apporto alla cultura abortista, ispirando nel 1969 la prima stesura della legge italiana sull’aborto e collaborando attivamente poi a quella della legge Veil sull’aborto in Francia (1975). Nel colloquio pubblico sull’aborto, riferito da “Le Monde” del 19 gennaio 1973, il padre gesuita Philippe Roqueplo dichiarò: «è dubbio che la vita dell’embrione sia una vita umana». E il padre Ribes si spinse a sostenere che, dato quel dubbio, «non solo uno non ha il dovere, ma nemmeno il diritto di darlo alla luce». In seguito, lasciò la Compagnia di Gesù e apostatò dalla Chiesa Cattolica.
D’altra parte, accanto a questo errore se ne fece strada un altro basato stavolta sulla “teoria del contrappeso dei valori” per cui si argomenta che «tra la madre e il figlio, tra l’adulto e l’infante, tra lo sviluppato e colui che deve svilupparsi non c’è uguaglianza di valore, ma prepondera il primo». Secondo alcuni teologi americani, «la morale cattolica non ha tenuto nel debito conto la vita della madre, e quando il diritto del bambino alla vita entri in collisione con quello della madre o con quello della specie (danneggiata per esempio da un soverchio incremento) la ponderazione di tutti gli elementi può far derogare al principio dell’inviolabilità della vita». Per cui mentre per i gesuiti francesi l’elemento che faceva la differenza stava nell’estrinseca volontà dei genitori di rendere o meno il concepito un uomo, per gli americani l’elemento che differenzia il concepito dalla madre sta nella priorità dell’esistenza e nel maggior sviluppo della madre rispetto al figlio. Si suppone quindi, affermava Amerio, «che vi sia diversità di valore umano tra il feto e la madre così da poter immolare quello a questa». Tale tesi fu fatta propria nientemeno che dalla sentenza della Corte Costituzionale italiana nel 1975 che sancì l’incostituzionalità dell’art. 576 del Codice penale che puniva l’aborto.
Con tali presupposti culturali, dunque, come stupirsi che una donna arrivi anche a soffocare i suoi figli? Se la volontà della donna è “sovrana” quando questi sono ancora nel suo grembo, tanto da deciderne della vita e della morte, come si può non ammettere che lo sia anche dopo che sono nati? Stessi figli, ma diverso grado di sviluppo e quindi diverso trattamento. Nessuno di questi nodi può essere compitamente sciolto fintanto che la cultura e le leggi abortiste continueranno ad esercitare la propria furia distruttiva sui corpi innocenti dei concepiti e sulle anime di chi è già nato.
Fonte: Corrispondenza Romana
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