L’appello universale alla santità come “politica” per il nostro tempo
Oct 22, 2024Ringraziamo Occhi Aperti! ( pseudonimo di una persona reale) per averci inviato la sua traduzione di questo interessante articolo scritto da Larry Chapp . Buona Lettura!
Come Sant’Ilario scrisse un migliaio di anni fa (o forse meno), “Meno chiediamo a Cesare, meno avremo da rendere a Cesare”. Dorothy Day
Ciò di cui abbiamo bisogno ora è la riscoperta di una sana consapevolezza della futilità della politica terrena come progetto escatologico. E per illustrare ciò, inizierò con una storia personale. Ero a Londra nel 2008 la mattina dopo che Obama era stato eletto presidente. I londinesi erano euforici ed eccitati come scolaretti in vacanza e stavano dibattendo apertamente sulle nuove elezioni come se noi avessimo appena eletto il Messia stesso. Mi colpì quanto fosse fortemente escatologico il tono di tutto; era espressione di qualcosa che rappresentava il punto finale di una teleologia storica che era stata raggiunta (finalmente!). La lettura progressista e liberale della storia era stata rivendicata; la storia ha davvero un obiettivo e questo obiettivo siamo noi. Era come se tutti avessimo affittato un party bus (bus per feste, ndt) per parcheggiare nel “cul de sac” di Fukuyama… in attesa del prossimo momento utopico. Eppure, dopo otto anni del Presidente del “Si se puede! (se si può)” non molto è cambiato, lo status quo del potere e della ricchezza è rimasto in vigore, tutte le precedenti disuguaglianze sociali hanno persistito, e il caro leader ha lasciato il suo ufficio da uomo ricco e ha preso residenza nella sua nuova villa su una spiaggia alle Hawaii.
Pertanto, in questo anno elettorale, quando sentiamo ancora una volta affermare in toni escatologici e apocalittici che “questa è l’elezione più decisiva dei tempi moderni!!”, e dove ogni candidato diffama l’altro come l’incarnazione stessa di una sorta di essenza distillata del male, è più importante che mai per i cattolici ricordare che la politica elettorale è di penultima importanza, e che la troppa speranza posta in essa può trasformarla in un idolo fuorviante. Questa apoteosi della politica intramondana può privare il cristiano del senso di ciò che è veramente ultimo (ultimo inteso come escatologico, ndt), e quindi abbiamo bisogno di ricordare che nessuna politica può essere veramente tale, in senso proprio, se non è prima animata dal lievito della grazia santificante. Ma questo può accadere solo quando ci sono cristiani che sono davvero santificati. E se non ci sono tali cristiani in numero significativo, allora l’Impero riempirà quel vuoto con sacramenti secolari e santi che agiranno come simulacri della Chiesa in un registro escatologico.
Non c'è niente di nuovo in questo. Nella Chiesa dei tempi apostolici era comune che Cesare fosse appellato come “Signore”. E questo era più di un semplice titolo onorifico, che riconosceva che Cesare era la suprema autorità politica della terra e “comandante in capo”. Aveva anche connotazioni religiose pagane, poiché l'Impero Romano era visto, dalla maggior parte delle persone di quel tempo, come unione dinamica del Regno degli Dei e della città terrena. Non c’era separazione tra Chiesa e Stato, naturalmente, e l’Impero era visto come un’entità sacra poiché era espressione, in forma microcosmica, del mondo macrocosmico degli dei e di quei vari “principati e potestà” che governavano il mondo come loro agenti subalterni. Così, l’affermazione “Cesare è il Signore”, era una dichiarazione di profondo significato religioso e politico che affermava, attraverso un’incarnazione quasi sacramentale del regno sacro in Cesare, il primato dell’Impero su tutte le cose.
Pertanto, quando i cristiani nella Chiesa primitiva affermarono pubblicamente che “Cristo è il Signore”, essi si impegnarono in un atto che era molto più che espressione di una pietà devozionale privata. Ovvero, facevano una pericolosa dichiarazione teopolitica nella misura in cui l’affermazione dossologica, “Cristo è il Signore”, era anche un atto di sfida politica che indirettamente negava che “Cesare è il Signore”. E così facendo, quei primi cristiani stavano sviluppando i primi contorni di una politica teologica che affermava il primato del Regno di Cristo, già presente in modo incompiuto e incompleto nella Chiesa, sui regni di questo mondo, tanto necessari quanto lo sono nella loro ben limitata maniera.
Come avrebbe potuto essere facile per la Chiesa primitiva dichiarare Cristo come loro “dio” pur affermando l’esistenza degli dei dell’Impero! Avrebbero potuto collocare Cristo nel pantheon degli dei romani, trasformandolo in un’altra delle tante religioni misteriche di quell’epoca. Avrebbero potuto mantenere la loro unica e specifica devozione religiosa a Cristo, evitando le persecuzioni dell’Impero. Questa fu sicuramente una tentazione, come alcune delle prime eresie mettono ben in luce, ma era una tentazione cui si resisteva con fervore da martiri. E così resistendo, crearono una forma di vita cristiana in cui la ricerca della santità di cui Cristo li aveva dotati, era vista come un processo di costruzione del Regno che aveva conseguenze politiche, nonostante il fatto, o forse per il fatto, che non fecero rivendicazioni politiche dirette. Infatti, alla fine, il piccolo gruppo di resistenza conquistò quello stesso Impero che aveva tentato di stroncarli.
Nella seguente citazione di Joseph Ratzinger vediamo il futuro pontefice fare un’affermazione molto simile. Vale a dire, che la fede nell’unico Dio è l’unica cosa che ci salverà dalla tirannia politica e l’unica cosa che può darci un senso proprio di ciò che è vera “politica”.
In questo senso, la professione di fede “Esiste un solo Dio”, proprio perché non mostra alcuna intenzione politica, costituisce un programma di incisiva importanza politica: grazie al carattere assoluto che essa attribuisce al singolo a partire dal suo Dio, e grazie alla relativizzazione di tutte le comunità politiche in nome dell’unità di quel Dio che le abbraccia tutte, essa è l’unico e definitivo baluardo di protezione contro il potere del collettivo e al contempo la radicale eliminazione di ogni idea esclusivistica che possa insorgere nell’umanità. 2
La grande svolta nella coscienza umana creata dall’ascesa e dal trionfo del monoteismo risiede nel fatto che l’affermazione dell’uno, trascendente Dio, riguarda tutti i regimi politici e tutti i “programmi” politici e li priva di ogni pretenziosa rivendicazione di autorità assoluta. In altre parole, come i primi cristiani sapevano bene, la Signoria di Cristo riduce al nulla le cose che sono e rende nuove tutte le cose. E questo ha implicazioni non solo per la politica, ma anche per la messa in pratica del Vangelo.
Ma qual è questo senso più ampio del termine “politica” a cui Ratzinger fa riferimento qui? Come americani ci siamo abituati alla riduzione del significato della parola politica a un certo tipo di partecipazione durante i processi elettorali. E tale partecipazione alla politica elettorale va bene finchè dura. Ma in un senso cattolico più tradizionale, e seguendo la dottrina sociale cattolica, la politica è una realtà molto più ampia del semplice voto e della mera promulgazione di leggi. Questo più ampio significato cattolico dato alla politica investe anche tutti i modi più disparati in cui una società e una cultura si sono formate e costituite, fino al riconoscimento della legge divina a cui Ratzinger sta alludendo qui. Ed è solo una tale legge divina, riconosciuta già attraverso la legge naturale, che può agire come principio limitante sui poteri del governo. In questo approccio cattolico, che è in contraddizione con le tendenze politiche della modernità, la società non può essere vista come un alveo di individui disaggregati tenuti insieme dalla forza bruta del potere governativo, ma piuttosto come una gerarchia disposta in settori ordinati, ciascuno in relazione reciproca con gli altri in base alla posizione nella gerarchia, e tutto ciò, compreso lo Stato, culmina in un'affermazione di Dio come fonte ultima dei beni morali che noi abbracciamo.
Inoltre, questo approccio cattolico non riguarda in primis il limitare il potere dello Stato, anche se questo è certamente uno dei suoi effetti collaterali. Piuttosto, è anzitutto un invito più concreto rivolto alla nostra vocazione e missione come cristiani nel mondo. In quanto cristiani, non siamo chiamati a ritirarci nel deserto come Esseni moderni in attesa dell’apocalisse e del giorno del giudizio per “gli altri”. Non siamo chiamati a diventare “survivalisti per Gesù” che fanno scorta di Bibbie, rosari e bombe a mano nello scuolabus sepolto nel campo del nostro scenario catastrofico.
San Benedetto fondò i monasteri come isole di santità e di apprendimento perché voleva promuovere tali cose in una cultura in disfacimento. Ma ciò che di certo non stava facendo era offrire una "opzione" ai dilettanti boemi tardo romani per placare le loro ansie borghesi. Ciò che stava proponendo come antidoto ai problemi del suo tempo non era di ritirarsi e neppure, come potrebbe sembrare, una mera separazione dalla società per scuotere la polvere di quest’ultima dai nostri piedi. Ciò che stava proponendo non era dunque tanto un’opzione quanto un mandato: “Siate perfetti come il vostro Padre celeste è perfetto”. Il fatto che abbia scelto un ambiente monastico per questo mandato è solo marginale in rapporto alla sua intuizione radicale che la santità della vita è la forma più vera del Regno di Cristo – un Regno che investe e trascende i regni marcescenti e disintegranti di questo mondo. E così facendo, San Benedetto stava soddisfacendo le esigenze della carità poiché il suo progetto non era un rifiuto gnostico del mondo ma piuttosto un’affermazione del mondo in quanto riscattabile.
La santità non è dunque caratterizzata primariamente da una mentalità “contro il mondo”, anche se spesso cerca il silenzio e la solitudine di un “luogo deserto” per ascoltare più chiaramente la voce di Dio. Ci sono davvero molti aspetti del mondo che devono essere evitati e respinti ma questo solo per poter abbracciare il mondo con un amore ancora più grande. Nostro Signore cercava spesso la solitudine per pregare. E poi tornava alle folle per predicare e terminò la sua vita camminando decisamente nell'accampamento dei suoi nemici a Gerusalemme.
Sant'Agostino scrisse il suo famoso testo, La città di Dio, mentre l'Impero romano, che molti pensavano essere in un certo senso eterno, andò in rovina intorno a lui. Il volume tratta di un argomento lungo e complesso che esamina attentamente quella teologia che vede la storia come l'interazione in corso tra la Città di Dio, che è caratterizzata da un'ascesa nell'amore divino, e la Città dell'Uomo, che è caratterizzata da una tendenza verso la libido dominandi, che può essere approssimativamente tradotta come la tendenza della natura umana decaduta a usare la forza bruta per controllare e dominare gli altri. Sulla terra queste due città trovano una parziale realizzazione nella Chiesa e nella società civile.
Ma ci sono anche più profonde attuazioni delle due città nel cuore di ogni individuo, sia cristiano che non cristiano. Questo regno invisibile delle città nelle nostre anime è in realtà un completamento della psicologia del credo che Sant’Agostino ha descritto anche nelle sue “Confessioni”, in cui egli chiarisce che la vera lotta per l’amore di Dio avviene nelle profondità del cuore umano. Sant’Agostino aveva un forte senso dell’abisso del peccato. Alcuni direbbero che aveva un senso di peccato agli estremi ma la linea di fondo è che Sant’Agostino era sicuramente nel giusto quando faceva notare che c’è un’entropia verso il basso nell’anima umana, una svolta interiore verso il sé come unico barometro della legge morale, e che questa entropia opera sia sull’individuo che su scala sociale. Uno schiavo, se è interiormente virtuoso e con valori morali, è veramente libero in un senso profondissimo ed è orientato alla Città di Dio. E un re, se è prigioniero della libido dominandi, è il più grande schiavo fra tutti, dal momento che è governato dalla moltitudine dei suoi vizi. Come Sant’Agostino dice: “Così, chi è buono, anche se schiavo, è un uomo libero; il cattivo, invece, fosse anche re, è sempre schiavo, non di un solo padrone, ma, e questo è grave, di tutti quei vizi che lo dominano.” 3
E parlando di vizi, la verità di ogni peccato è che è una menzogna. E più profondo è il peccato, più profonda diventa la menzogna e più pervasiva e convincente l’illusione che genera. Sant’Agostino sottolinea quindi che intere civiltà, quando cadono nella depravazione, devono nascondere la loro perfidia in una nebbia di menzogne e illusioni ingannevoli. Devono far girare lo strame del peccato nell’oro di un presunto eroismo morale. Il bene diventa male e il male bene nella grande inversione dei valori che lo storico francese Alain Besançon, seguendo Soloviev, chiama “la falsificazione del bene”.4
Le culture in decadenza (come le nostre) devono sempre impegnarsi nel ripresentare i loro vizi riformulandoli come virtù. Le guerre di sanguinose conquiste sono spacciate come grandi vittorie sulle forze dell'oscurità. L'avidità rapace tra le ricche élite si trasforma in beneficenza imprenditoriale. I sistemi giudiziari ingiusti che distribuiscono la giustizia in modo iniquo in base alla razza o allo status economico sono ri-proposti come necessarie disposizioni di “legge e ordine” per mantenere al sicuro le “persone comuni”. Il libertinaggio sessuale perde la sua patina di vergogna e viene celebrato come liberazione dall’oppressione morale. L’infanticidio prenatale viene venduto come “salute e libertà riproduttive”. La corruzione in alto loco, dove il denaro è l’unico linguaggio del discorso, viene riformulata semplicemente come “lobby”. E per Sant’Agostino questo modello di menzogna è pervasivo nella storia del mondo e spiega perché quando i grandi imperi cadono, è un vero shock per tutti quelli che sono finiti sotto l'incantesimo di tali inganni.
La santità non è quindi un vano passatempo fatto di sentimentalismo devozionale ma è piuttosto un accesso terribilmente serio al pathos interiore del declino conflittuale del mondo, nella disperazione delle illusioni nichilistiche. Solo la verità di Dio saprà come fare. E il compito di noi cristiani è di conformarci a tal punto a quella verità da diventarne i suoi recipienti trasparenti per la vita del mondo. È soltanto una tale santità che può creare la giusta ottica per rendere il contrasto chiaro. E questo contrasto, come sottolinea il teologo ortodosso David Bentley Hart, è un contrasto tra “Cristo e il nulla”.5 Ed è solo una santità radicata nella conformità a Cristo che può stare al di sopra dell’abisso sottostante senza cadere.
La mia rivendicazione è che gli dei che animano la nostra cultura siano fatti su negli stessi panni di quelli di un tempo, anche se ora sono vestiti in modo diverso e sono ancora più distruttivi, poiché il potere della tecnologia moderna non fa che aumentare il campo d’azione di coloro che cercano di controllare e di dominare. Il cappio del “capitalismo di controllo” si stringe sempre più attorno ai nostri colli, tanto più quanto più la “big tech (grande tecnologia)” diventa il potere dominante del nostro tempo.6 Viviamo oggi in un'epoca di miti ancora più terrificanti, resi più letali dal fatto che i nostri miti prendono posizione come anti-miti e quindi sono più ammalianti nel loro ingannevole involucro, quasi fosse forma di sofisticata illuminazione. Ma la realtà è che con l'eclissi del vero Dio nella nostra cultura tutti gli dei più antichi e forti di Blut und Erde (lett., di sangue e terra) sono tornati per vendicarsi.
Anche Joseph Ratzinger aveva visto tutto ciò e aveva immaginato un futuro in cui la Chiesa, avendo perso la maggior parte della sua influenza come leva per un cambiamento culturale, avrebbe finito col ridursi a un piccolo numero di credenti devoti. Non avalla ciò come preferibile ma lo predice in quanto è ciò che è più probabile che accada. Egli sta semplicemente sottolineando che il nostro è un momento culturale caratterizzato da incredulità e irrealtà nei confronti di Dio e dobbiamo riconoscere questo fatto per raddoppiare la ricerca della santità, o periremo.
Egli afferma:
E così mi sembra certo che la Chiesa stia affrontando tempi molto duri. La vera crisi è appena iniziata. Dovremo mettere in conto terribili sconvolgimenti. Ma sono altrettanto certo di ciò che rimarrà alla fine: non la Chiesa del culto politico, che è già morto... ma la Chiesa della fede. Non sarà più forza dominante sociale nella misura in cui lo è stata fino a poco tempo fa ma godrà di una nuova fioritura, e apparirà agli uomini come la patria che ad essi dà vita e speranza oltre la morte. 7
E da dove Ratzinger pensa che questa “nuova fioritura” sboccerà? Dai santi; inclusi noi tutti, nella misura delle nostre possibilità. Così sottolinea: “Il futuro della Chiesa…sarà plasmato nuovamente dai santi, da quegli uomini le cui menti scavano ben più in profondità degli slogan oggidì sciorinati, che vedono ben più di quanto gli altri vedono, perché le loro vite abbracciano una realtà più ampia”.8 Il nostro futuro, in altre parole, dipende dalla chiamata universale alla santità come una sorta di contro-politica in contrapposizione alle divinità politiche della modernità.
E poiché viviamo in un’epoca egualitaria con un’economia orientata in funzione di una vasta classe media, la cui maggioranza è ora profondamente interconnessa via internet, possiamo allora dire di vivere in un tempo ecclesiale che segna l’ora dei laici. La santità non può più essere un semplice punto di convergenza per consacrati e monaci. Abbiamo bisogno, come già vide molto tempo fa Dorothy Day, di una rivoluzione del cuore tra i laici, per favorire un grande rinnovamento della fede nelle trincee della vita quotidiana. In breve, il tempo di essere semplici spettatori che osservano marciare i pochi santi in mezzo a noi è giunto al termine. Ora è Cristo o il nulla.
Quindi, in realtà, non importa chi è al potere – democratici o repubblicani – e non importa se pongono più enfasi sul governo per risolvere i nostri problemi o sull’economia della libera impresa in un contesto secolarizzato, amorale, malthusiano. Questa non è nemmeno una lettura cinica della nostra situazione. È piuttosto ciò che siamo. Non posso sottolineare abbastanza che ciò di cui sto parlando qui non è solo di alcune falsificazioni, nell’ottica moderna del mondo, che si possono semplicemente ritoccare e sistemare per rimediare agli errori. Ciò che ora possiamo vedere chiaramente è che la modernità, liberata dalle ultime vestigia della sua eredità cristiana e che ora manifesta pubblicamente la sua reale intenzione, rappresenta una totale rielaborazione della struttura della realtà, di come interpretiamo cosa sia la verità. Stiamo andando molto oltre il ritoccare il meccanismo del mondo moderno con un pizzico di San Tommaso d’Aquino…
Non sono certo qui per dire alla gente di non partecipare al processo elettorale o per chi dovrebbe votare. Ma poiché la nostra scelta sembra essere tra Claudio o Domiziano, quello che sto dicendo è che la trasformazione del nostro Impero è ora, come era allora, più una scelta della nostra santità come contro-testimonianza alle idolatrie del potere piuttosto che di quale burocrate salga ora al timone.
Il dottor Larry Chapp è un professore di teologia in pensione che ha insegnato per vent'anni alla DeSales University. Ora possiede e gestisce, con sua moglie, la Dorothy Day Catholic Worker Farm a Harveys Lake, Pennsylvania. Può essere seguito online al link Gaudium et Spes 22.
1 Dorothy Day, The Catholic Worker (gennaio 1973).
2 Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo (San Francisco, Ignatius Press, 2004), p. 113 – pagina 105 nell’edizione italiana della Queriniana, 2005 (ndt)
3 Sant'Agostino, La città di Dio (Libro IV, capitolo 3).
4 Alain Besançon, La falsificazione del bene: Soloviev e Orwell (Londra, Claridge Press, 1994).
5 David Bentley Hart, “Cristo e il nulla”, First Things (ottobre 2003).
6 Per un’analisi illuminante e spaventosa di come l’alleanza tra “big tech” e moderno “stato assistenziale” stia portando all’eclissi totale di libertà e privacy, vedi Shoshana Zuboff, The Age of Surveillance Capitalism (L’Era del Capitalismo di Controllo - New York, Public Affairs, 2019).
7 Joseph Ratzinger, Fede e Futuro (Chicago, Franciscan Herald Press, 1971), pp. 105-106.
8 Ibid., pp. 101–102.
FONTE : https://whatweneednow.substack.com/p/the-universal-call-to-holiness-as
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