L’esercizio della sofferenza forma per l’eternità
Sep 13, 2022di Francesco Lamendola
Søren Kierkegaard non voleva essere considerato un filosofo e, da parte sua, non si riteneva un filosofo, ma uno scrittore religioso o edificante; del resto, detestava i filosofi e specialmente i professori di filosofia. In realtà è stato non solo un filosofo, ma un grande filosofo: uno dei più acuti e originali del XX secolo, se non dell’intera modernità: in libri come le Briciole di filosofia e la Postilla conclusiva non scientifica ha mostrato di essere forse l’unico, da Cartesio a oggi, capace di misurarsi con l’assoluto e con l’eterno, riprendendo la grande tradizione metafisica che era stata, ed è, abbandonata: però dal punto di vista, tutto moderno, del singolo e cioè dell’individuale; e qui sta la sua originalità. A Kierkegaard non interessano i sistemi: li conosce, ma li scarta; nessuno meglio di lui conosce e ha compreso le trame sottili della dialettica hegeliana, e arriva ad affermare, senza alcuna vanteria, che se ci sono dei punti nei quali Hegel non è stato chiaro, è perché lui stesso non ha saputo sviluppare coerentemente il proprio ragionamento. Kierkegaard, dunque, si confronta coi filosofi contemporanei; si è anche recato a Berlino e ha ascoltato le lezioni dell’ultimo Schelling: ma ne ha imparato ben poco. Ed è tornato nella sua Copenaghen a riprendere il filo mai interrotto delle sue meditazioni, l’incessante dialogo con se stesso e con Dio, che forma la trama costante della sua vita interiore.
A lui non interessano le filosofie che parlano del generale e dell’universale: vuol sapere cosa deve fare il singolo, qui, adesso, della propria vita; vuol sapere se la vita ha un significato preciso per me, per te, per lui, e non per l’uomo in generale, che è solo un’astrazione. E la risposta cui giunge è che il singolo può e deve decidere della propria vita, e deve decidere davanti all’eternità e per l’eternità: nell’istante, ma per l’eternità, un po’ come il punto, che non ha estensione, è la base per tutta la geometria, cioè per innumerevoli linee, figure, superfic e volumi. E come può l’uomo, creatura della contingenza, decidere per l’eterno? Certo non da solo, non con le sue sole forze: ha bisogno di Dio, che gli viene incontro e lo attende come un Padre amorevole. Ma l’uomo ha la tremenda responsabilità di decidere che uso fare della propria libertà: può dire di sì e può dire di no. Ma il sì alla chiamata di Dio è un sì pronunciato per l’eternità, come del resto anche il no: impegna per sempre, e impegna totalmente. Di qui il rigore del cristianesimo di Kierkegaard, la sua insofferenza per i cristiani tiepidi (lui li chiama i cristiani fino a un certo punto), i quali si creano il loro posticino caldo all’interno del mondo, magari come vescovi, come predicatori, come modelli di “vero” cristianesimo. No: chiunque si fa una cuccia nel mondo, non ha inteso la terribile serietà del cristianesimo: non ha compreso che Gesù vuole ogni singolo uomo tutto per Sé, senza compromessi o mezze misure.
E come si fa ad arrivare a Cristo; come si fa a sapere qual è la Sua volontà, qual è la Sua chiamata? Qui viene la parte più ostica, più dura del messaggio di Kierkegaard agli uomini del suo tempo, ai cristiani di ogni tempo: la strada ci viene indicata da un fattore inequivocabile: la sofferenza. Non si può essere cristiani senza soffrire. Ma attenzione: si può soffrire senza essere veri cristiani, o senza esserlo affatto. Tutti gli uomini sono esposti alla sofferenza: tutti, nessuno escluso. Ma ciò che all’uomo lontano dalla grazia appare come un non senso, come una beffa atroce, una delusione immeritata, per colui che cerca la grazia di Dio appare come una luce che brilla nel buio. Soffrire è crescere e maturare agli occhi di Dio: sviluppare la capacità di vedere e distinguere ciò che è secondario da ciò che è essenziale. Non solo: soffrire offre la possibilità di offrire a Dio la propria sofferenza, sotto la forma del completo abbandono alla Sua volontà. Lui, e Lui solo, sa perché soffriamo; noi, no; noi, se potessimo, fuggiremmo lontano dal calice amaro – perfino Gesù Cristo, nell’orto degli ulivi, è stato sfiorato da una simile tentazione. Ma se ci si abbandona alla volontà di Dio, con piena fiducia e intima adesione alla Sua volontà, allora ecco che la sofferenza agisce in noi come un lievito: fa cadere la parte inferiore, la parte egoista, la parte superficiale, e fa sbocciare la parte più nobile, la parte generosa, la parte realmente capace di amare. Solo chi ha sofferto capisce cos’è l’amore; solo la sofferenza ci mostra la strada che conduce a Dio e all’amore del prossimo. Nessuno che non l’abbia vissuta con pieno e consapevole abbandono può dire di aver fatto l’esperienza decisiva: l’esperienza di farsi come molle cera nelle mani di Dio, di dire di sì alla Sua volontà. Rifiutare la sofferenza, cercare di evitarla, inquietarsi contro di essa e magari contro Dio, significa ribellarsi al Suo volere; accettarla pienamente, accettarla con fede, significa mettersi a disposizione del disegno divino.
Perché Dio ha un disegno, un disegno per ciascuno di noi e non per l’umanità in astratto: un disegno preciso, formulato dall’eternità: quello di chiamarci a sé, di darci la pace che viene solamente dalla Sua vicinanza, e soprattutto di formarci, di darci una forma, che è una forma per l’eternità, alla quale siamo comunque chiamati; mentre senza di Lui siamo indefiniti, incompleti, inconsistenti, disarmonici, assurdi. L’uomo, senza la grazia, è inquieto: sente che gli manca qualcosa per essere appagato, ma non sa bene cosa: si guarda attorno e non vede che cose effimere, nessuna delle quali gli promette il riposo al quale egli aspira. Tutta la cosiddetta civiltà moderna non è che una corsa affannosa e inquieta, che va errando qua e là; una corsa cieca, insensata, perché non si rivolge mai nella direzione giusta. L’uomo scambia il finito per la meta, e ogni volta si ritrae deluso, con un amaro sapore in bocca, e ogni volta ricomincia a correre e a cercare, come in un cerchio stregato, finché la grazia di Dio non rompe l’incantesimo maligno e lo restituisce a se stesso. Ciò avviene non per via intellettuale, ma precisamente attraverso la sofferenza: è allora, nell’esperienza del soffrire e del morire a se stessa e alle proprie ambizioni terrene, che l’anima ha l’occasione di ridestarsi e vedere finalmente, con chiarezza, ciò che le manca e di cui ha bisogno, e ciò di cui non ha bisogno, anche se per tanto tempo non ha fatto che inseguirlo e dargli un’importanza sproporzionata.
Scrive Søren Kierkegaard nel 1847 in una pagina tanto meravigliosa quanto poco nota al grande pubblico (da: S. Kierkegaard, Il Vangelo dei sofferenti; cit. in Marguerite Grimaut, Kierkegaard par lui-même, Paris, SEuil, trad. di Clementina Smet, Torino, Società Editrice Internazionale, 1974, pp. 105-106):
Se un uomo soffre e vuol imparare dai suoi mali, E RIESCE A ISTRUIRSI DA SOLO E ATTRAVERSO IL SUO RAPPORTO CON DIO, EGLI SI FORMA PER L’ETERNITÀ. Le sofferenze possono insegnarci come il mondo ci inganna e tradisce e molte altre cose simili, ma questa sapienza non è propriamente il loro insegnamento. No; come il fanciullo deve essere svezzato per non esser più tutt’uno, per così dire, con la madre, così in senso più profondo l’uomo deve attraverso la sofferenza esser svezzato dal mondo e dalle cose di questo mondo, deve smettere di attaccarvisi e di inquietarsene per imparare per l’eternità. Per questo l’esercizio della sofferenza è una morte lenta, fatta delle tranquille ore di una lunga agonia: a quella scuola si è sempre tranquilli per tutto il tempo; l’attenzione non è dispersa fra le numerose materie in programma, perché vi si è istruiti sulla sola cosa necessaria; l’attenzione non è neppure disturbata dai compagni, infatti l’allievo è solo con Dio. L’insegnamento non è discutibile per le qualità del maestro, è Dio che lo impartisce e insegna una cosa sola: l’obbedienza. Essa non può essere appresa senza la sofferenza, che ne è garante proprio perché indica che ci si rimette a Dio, senza disporre di noi stessi; ma chi impara ad obbedire impara tutto. Diciamo abitualmente che bisogna imparare ad ubbidire per saper comandare, ed è vero; tuttavia ci si istruisce ad una cosa ancor più bella: imparando ad ubbidire nell’esercizio della sofferenza, impariamo a rispettare la volontà di Dio. In fondo a cosa si riduce ogni verità eterna se non alla volontà di Dio, quale altro legame e concordia ci può essere fra il temporale e l’eterno, se non il fatto che Dio si serve di noi e noi gli permettiamo di usarci! Dove s’imparano queste cose se non nell’esercizio della sofferenza, quando il bambino è svezzato e si fa morire a poco a poco il suo amor proprio, quando, abbattuti dalla sofferenza, si comincia a imparare che il potere è nelle meni di Dio, finché nella gioia dell’obbedienza ci si sottomette alla sua Volontà! Tutto quel che l’uomo sa dell’eterno è essenzialmente contenuto nell’espressione: Dio vuole; quel che s’impara in più riguarda il MODO con cui Dio ha voluto, vuole, vorrà. Nel linguaggio dell’ubbidienza, questa verità eterna si esprime così: non ostacolare la volontà di Dio. È sempre la stessa formula, eccetto il sì dell’ubbidienza pieno di umiltà e di fiducia, che conferma che noi ci rimettiamo a Dio. Se il timore di Dio è l’inizio della saggezza, il tirocinio dell’obbedienza ne è il compimento; vi si cresce in saggezza, formandosi per l’eternità. Se per caso, reso docile dalla sofferenza, tu ti sei sottomesso con un’obbedienza perfetta, assoluta, allora tu hai anche colto in te la presenza dell’eterno, tu hai trovato la pace e la quiete terna, perché là dov’è l’eterno, vi è anche la quiete, e l’inquietudine è la dove non c’è l’eterno. C’è nel mondo l’inquietudine, soprattutto nell’anima dell’uomo, quando l’eterno non vi regna ed egli è “sazio” solamente “d’inquietudine” (Giobbe, VII,4). Ma se, col pretesto di scacciarla, le distrazioni la fanno aumentare, le sofferenze invece la bandiscono, mentre apparentemente dovrebbero accrescerla. La gravità austera della sofferenza è prima di tutto simile a una punizione che accresce l’inquietudine, ma se colui che offre vuol imparare, egli si forma allora per l’eternità.
INFATTI TROVARE LA QUIETE, È ESSER FORMATI PER L’ETERNITÀ. C’è essenzialmente un solo modo d’agire per trovare la pace, permettere che Dio disponga di tutto; quel che si impara in più riguarda il MODO in cui Dio ha voluto disporre. Il pensiero della redenzione per l’anima pentita implica la pace; ma essa non può trovarla in quel pensiero d’eternità se non si fonda innanzitutto su quello dell’obbedienza, per cui Dio dispone di ogni cosa; la redenzione è proprio la decisione, presa da Dio per salvare l’uomo. Il fatto che sia stata resa piena riparazione al peccato, implica la pace per l’anima pentita, che tuttavia , che tuttavia non può trovarla se non si basa sull’idea eterna di non ostacolare l’Assoluta Volontà Divina; infatti la piena riparazione è proprio la decisione presa da Dio dall’eternità. Che Dio voglia coglierti in grazia, è un’idea che dà la pace, ma tu non puoi qui trovarla se non ti basi sull’Assoluta Volontà Divina. Altrimenti la grazia di Dio diviene merito tuo, mentre è Dio a darti la volontà e l’azione, la capacità di crescere e di perfezionarti, e proprio quello di cui sei incapace, che non fa altro che rattristare lo spirito e ritardarne lo sviluppo. La fede e l’ubbidienza della fede nelle sofferenze favoriscono la crescita, infatti tutto il lavoro della fede tende a eliminare il particolare e l’egoistico, affinché Dio possa veramente intervenire, trovandoti disponibile. Soffrendo di più e imparando nello stesso tempo dai nostri mali, eliminiamo, estirpiamo l’egoismo, per lasciar posto all’obbedienza, divenuta il terreno fertile, in cui l’eterno può affondare le sue radici. Tu non puoi impadronirti dell’eterno, ma soltanto assimilarlo; tu non puoi assimilare ciò che ti è proprio, ma soltanto quel che è di un altro. Tu non puoi appropriartene in modo lecito, se egli non te lo vuol dare; ma se egli lo vuole, l’assimilazione è allora il lavoro della vita interiore; riguardo a Dio e all’eterno, l’assimilazione è l’ubbidienza, in cui c’è la pace. Nell’eterno vi è la pace, tale è l’eterna verità; ma l’eterno non può fondarsi altro che sull’obbedienza, e questa l’eterna verità che ti riguarda.
Timor di Dio; umiltà; abbandono; fede; pentimento; riparazione; verità; eternità; pace. Sono le parole chiave del cristianesimo di Kierkegaard: che non è una disposizione intellettuale o spirituale, ma un conversione, una decisione, un atto, un esercizio, nel senso tecnico della parola: un continuo esercitarsi su qualcosa che tende per sua natura alla perfezione, pur sapendo che la perfezione non è di questo mondo e che in questo mondo si può solo tentare di avvicinarsi ad essa, pur restandone ben lontani. Esercizio di cristianesimo, dunque, ma esercizio totale, rigoroso, virile: esercizio che assorbe tutta l’esistenza, tutta la coscienza, tutti i pensieri, tutta la volontà. Il cristiano non vuole più nulla, se non ciò che piace a Dio; non tende più a nulla, perché lascia fare a Dio; non spera più nulla (in questo mondo), perché si è messo interamente nelle mani di Dio. Sono, quelle, le parole che non sentiamo più in chiesa, che non si sentono più al catechismo, che non si sentono più nei seminari e nelle facoltà teologiche. È assai più “cattolico” il luterano Kierkegaard, del resto in rotta dichiarata con la Chiesa protestante (al punto di rifiutare la Comunione sul letto di morte, che un pastore era venuto ad offrirgli), di tanti sedicenti cattolici.
Kierkegaard ha sentito in profondità il dramma angoscioso della solitudine dell’uomo smarrito in una società senza più la grazia divina, in una società che onora Cristo solo formalmente, ma in realtà segue i propri capricci e il proprio tornaconto: ha pesato tutte le “conquiste” del mondo moderno, la scienza, la filosofia, la tecnica, l’economia, e le ha trovate scarse, scarsissime, quasi senza peso; mentre ha visto e compreso che una cosa soltanto può dare la pace, la pace vera e non la pace effimera e illusoria di questo mondo, che è solo un inganno o una breve tregua in mezzo alle tempeste: il rimettersi a Dio con la fiducia totale del figlio pentito e ravveduto. E ha anche visto che l’uomo, nella sua fondamentale miseria (altro che il progresso degli illuministi; altro che la libertà e la giustizia dei liberali e dei democratici!) non è capace di tanto: ma per fortuna è Dio stesso che lo soccorre e gli viene incontro. Perciò all’uomo resta sola da dire un sì o un no, e dirlo per sempre: con tutte le conseguenze che ne derivano. È lì, in quel punto, cioè sulla soglia dell’eternità, al confine estremo fra il tempo e l’eterno, il finito e l’infinito, che si gioca la partita decisiva della esistenza umana. È lì che si chiarisce se è stata solo un errore, una corsa senza senso, una inutile ricorsa di quel bene che sempre sfugge ed è sempre un passo più avanti di noi, o se trova la sua meta, il suo significato e la sua pace.
Come ha osserva Michele Federico Sciacca nel presentare Il concetto dell’angoscia, ma, in effetti, a ricapitolazione di tutto l’itinerario kierkegaardiano,
… chi non è morto alla grazia di Dio, rinuncia alla pretesa di voler comprendere razionalmente se stesso e Dio (pretesa implicante la tentazione di poter rovesciare su Dio l’origine della libertà e del peccato), e attraverso la lenta corrosione di tutte le cose finite, giunge nuovamente alla Provvidenza, con un atto di fede, dove è riposo e pace.
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