La carità eroica della famiglia Ulma, raccontata in un libro
Sep 13, 2023di Ermes Dovico
In “Uccisero anche i bambini” la storia della famiglia Ulma, trucidata dai nazisti per aver nascosto degli ebrei e che domenica è stata proclamata beata in Polonia. Una beatificazione senza precedenti, che include pure un bambino nel grembo materno. E c’è un “giallo”.
Domenica 10 settembre è stata celebrata a Markowa, in Polonia, la Messa per la beatificazione dell’intera famiglia Ulma, uccisa il 24 marzo 1944 dai nazisti insieme agli otto ebrei a cui avevano offerto rifugio nella loro casa. A seguito del riconoscimento del martirio, saranno dunque proclamati beati i coniugi Józef (Giuseppe) e Wiktoria (Vittoria) e i loro sette bambini: Stanisława (nata nel 1936), Barbara (1937), Władysław (1938), Franciszek (1940), Antoni (1941), Maria (1942), più l’ultimo figlio degli Ulma, che al momento della strage era ancora nel grembo della madre, in fase avanzata di gravidanza, come avevamo riferito già sulla Nuova Bussola.
A proposito di questa piccola creatura, il più giovane martire riconosciuto nella storia della Chiesa, un libro fresco di stampa Uccisero anche i bambini. Gli Ulma, la famiglia martire che aiutò gli ebrei (Ares, 2023) – a firma del sacerdote polacco Paweł Rytel-Andrianik e della vaticanista dell’Ansa, Manuela Tulli – si rivela utile a fare luce su dettagli preziosi, riportando le testimonianze di alcuni dei protagonisti dell’epoca. Tra le più significative, quella di Franciszek Szylar, uno degli uomini che quattro o cinque giorni dopo il massacro andarono di notte a recuperare i corpi, precedentemente seppelliti in fretta, per porli in delle bare e riseppellirli. Testimoniava Szylar: «Ponendo il corpo di Wiktoria Ulma nella bara, ho constatato che era incinta. Baso la mia affermazione sul fatto che dai suoi organi riproduttivi erano visibili la testa e il petto di un bambino». Un testimone de relato, Roman Kluz, nipote di Wiktoria, riferisce che suo padre e altre due persone (Józef Niemczak e Antoni Szpytma), al momento di portare «le bare per mettere dentro i corpi», «trovarono il settimo figlio nato nella tomba, che mia zia aveva dato alla luce dopo la morte».
In pratica l’ipotesi è che Wiktoria, forse per il comprensibile shock seguito all’irruzione all’alba da parte dei nazisti, proprio nei drammatici momenti intorno all’esecuzione, «ha iniziato a partorire», come afferma il cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi, in un’intervista che fa da prefazione al libro. Ma il bambino, all’atto del martirio, era in ogni caso nel grembo della madre, come conferma lo stesso Semeraro nella prefazione: «Tanto la Consulta dei Teologi quanto la Riunione Ordinaria dei cardinali e dei vescovi del Dicastero, che poi formula la petizione al Santo Padre, hanno incluso nel gruppo anche una creatura che era nel grembo della mamma, che probabilmente ha iniziato il parto, per la paura, durante l’esecuzione da parte dei nazisti. Questo è un caso molto singolare che, facendo riferimento a un episodio evangelico, possiamo chiamare Battesimo di sangue. Penso, per un caso simile, a quello dei Santi Innocenti. Anche questa creatura, la cui testa e parte del piccolo corpo sporgeva dal ventre della mamma, come fu trovata nella fossa comune nella quale era stata sbrigativamente sepolta tutta la famiglia dopo l’eccidio, è stata ritenuta meritevole di martirio». C’è somiglianza, per gli argomenti teologici sottostanti (su tutti, il primato della grazia), con il caso dei Santi Innocenti, ma mai appunto era avvenuto che la Chiesa riconoscesse il martirio di un bambino ancora nel grembo materno, avvalorando ulteriormente l’insegnamento di sempre sull’infinita dignità del concepito.
Ha perciò destato una certa sorpresa la nota del Dicastero delle Cause dei Santi, sottoscritta dallo stesso Semeraro, e in cui al punto 2 si afferma che «questo figlio [il settimo, ndr] è stato partorito nel momento del martirio della madre». Una sorpresa perché la nota del Dicastero non specifica quanto detto sopra, cioè che il parto era al più nelle sue fasi iniziali. Di qui il “giallo” (che si inserisce nella battaglia tra pro-vita e pro-aborto), su cui hanno scritto già il Messaggero e il blog Messainlatino. Il numero dei beati resta uguale, ma è chiaro che la presenza tra essi di un bambino nel grembo materno è un elemento in più, una luce in più che richiama la verità sulla vita nascente, sulla vita come un continuum.
Ad ogni modo, rimane il fatto eccezionale di un’intera famiglia (nove membri) beatificata insieme. Wiktoria e Józef Ulma - 31 anni lei, 44 lui, al tempo del martirio - sapevano benissimo il pericolo a cui andavano incontro, nascondendo gli otto ebrei poi uccisi con loro, ossia: Saul Goldman, con i figli maggiorenni Baruch, Mechel, Joachim e Moses, le due sorelle Gołda Grünfeld e Lea (Layka) Didner e la piccola figlia di quest’ultima, Reszla. Una convivenza, quella con gli Ulma, che durò per un tempo notevole, circa un anno e mezzo, e interrotta appunto solo dalla ferocia della squadra nazista guidata da Eilert Dieken, mosso sia da antisemitismo che da odio contro il cristianesimo.
Gli Ulma, dicevamo, conoscevano il pericolo, come si ricorda anche nel libro, che ben ricostruisce il contesto storico. La spedizione di Dieken e compagni ricadeva all’interno della più ampia Operazione Reinhard, come venne denominato il programma di sterminio che aveva il fine di uccidere i quasi due milioni di ebrei polacchi nel Governatorato Generale, l’area della Polonia occupata durante la Seconda guerra mondiale e gestita dalla Germania.
Già il 13 dicembre 1942, quindi più di 15 mesi prima del martirio degli Ulma, la polizia tedesca aveva avviato una grande campagna di perquisizioni a Markowa; e il giorno seguente era avvenuta una fucilazione di massa, con l’uccisione di 25 ebrei che si erano nascosti nei boschi intorno allo stesso villaggio. Tra questi ebrei uccisi dai nazisti a Markowa, c’erano anche quattro donne a cui il nostro Józef Ulma, un contadino ricco di ingegno e di talenti, aveva offerto il suo aiuto, preparando per loro un nascondiglio. In quello stesso periodo, altre famiglie di Markowa e dintorni, come pure in altre parti della Polonia, dimostrarono un eroismo simile a quello degli Ulma, nascondendo ebrei a rischio della propria vita.
Quella di Józef e Wiktoria era una carità che veniva da lontano, radicata e coltivata fin dalle loro famiglie d’origine, profondamente cattoliche. Entrambi con una grande devozione alla Madonna e assiduamente impegnati nella vita della parrocchia, crebbero i figli in un’atmosfera di semplice amore familiare. Con loro pregavano insieme in casa. Nella Bibbia degli Ulma si ritrovarono un paio di significative sottolineature in rosso, tra cui quella sul titolo della parabola al capitolo 10 del Vangelo di Luca: Il buon Samaritano. A chi gli consigliava di non mettersi nei guai nascondendo gli ebrei, Józef rispondeva: «Sono persone, non le caccerò via».
Oggi, testimoni di Cristo e dei due comandamenti dell’amore, Józef, Wiktoria e i loro sette figli splendono nella gloria eterna.
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