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La Rowling, la dittatura trans e la rivoluzione della lingua

la nuova bussola quotidiana tommaso scandroglio Feb 29, 2024

di Tommaso Scandroglio

La scrittrice britannica sostiene economicamente un’associazione femminista impegnata in una causa per dire che solo le donne sono donne. Un’ovvietà che oggi si cerca di far dimenticare, stravolgendo lingua e dizionari. Come fa l’Eige.

La nota scrittrice J.K. Rowling, da anni nell’occhio (cieco) del ciclone delle lobby Lgbt per le sue critiche al transessualismo, avrebbe donato 70 mila sterline all’associazione femminista For Woman Scotland, associazione impegnata in una causa presso la Suprema Corte britannica. Nel 2018 il Parlamento scozzese varò una norma che prevede che il 50% degli incarichi presso la pubblica amministrazione siano ricoperti da donne. Per “donne”, secondo il legislatore, devono intendersi anche gli uomini che si credono donne, ossia i transessuali. Il significato del termine “donna” si espande così a dismisura fino a ricomprendere la sua accezione opposta: l’uomo. Le femministe di cui sopra avevano già cercato di modificare in sede giudiziale questa legge, ma senza successo. Ora con l’appoggio della Rowling hanno deciso di ricorrere presso la Corte Suprema al fine di dichiarare l’ovvio: solo le donne sono donne.

È noto che uno degli strumenti più efficaci della rivoluzione culturale sia la lingua. Prendi possesso delle parole e prenderai possesso delle menti. Gli esempi, oltre a quello appena citato, sono infiniti. Un caso tra mille: sul sito dell’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (Eige) si può prendere visione del Toolkit on Gender-sensitive Communication, cioè di un armamentario linguistico al servizio del politicamente corretto. Ad esempio l’Eige suggerisce di sostituire il termine “virile” con i termini “energico” o “forte”, perché la prima parola è appannaggio degli uomini, non così le altre due. Sul sito vi sono altre amenità. Ad esempio rappresenterebbe un’espressione discriminatoria questa frase: «Gli ambasciatori e le loro mogli sono invitati a partecipare a un ricevimento dopo cena». Nonostante gli invitati siano prima di tutto gli ambasciatori a motivo del loro ruolo, quelli di Eige vorrebbero che fossero nominate prima le donne. Ma se nominiamo prima le donne non è che discriminiamo poi gli uomini? Altro caso: «Ogni giorno ogni cittadino deve chiedersi come può adempiere i propri doveri civici», frase discriminatoria perché “cittadino” è sostantivo maschile.

È da tempo che la battaglia contro il buonsenso imperversa sui vocabolari. E così abbiamo la creazione di neologismi (ad esempio omogenitorialità, omofobia, sindachessa, architetta), la cancellazione di parole (ad esempio virtù e vizio), il trasferimento di termini da un ambito proprio ad un ambito improprio (ad esempio la parola “genere” che dalla grammatica è stata deportata nell’ambito antropologico), il restringimento del significato di un lemma (ad esempio il termine “natura” che indica oggi solo l’ambito naturalistico, escludendo quello metafisico), il suo ampliamento (è il caso visto prima, dove “donna” significa anche “uomo”), lo snaturamento di un termine (ad esempio famiglia, matrimonio, amore).

Poi, tra gli altri, esiste anche un altro strumento linguistico utile ai rivoluzionari: la sostituzione linguistica. Ossia una data realtà nel tempo viene indicata da termini sempre diversi, cambiando così nella coscienza collettiva il giudizio morale su quella realtà. Da aborto ad interruzione volontaria della gravidanza, da fecondazione artificiale a procreazione medicalmente assistita, da utero in affitto a gestazione per altri, da peccato a fragilità, etc. Altre realtà sono state segnate da diverse tappe intermedie: da “handicappato” a “persona con handicap” (cfr. Legge 104/92) a “disabile” a “persona con disabilità” (cfr. Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, 30 marzo 2007). Una delle finalità di questa involuzione linguistica, come accennato, è mutare il percepito collettivo a favore dell’ideologia. Ad esempio il cambio da aborto ad interruzione volontaria della gravidanza mira ad occultare il fatto che l’aborto sia un assassinio.

In altre occasioni il processo involutivo tende a conservare per un certo gruppo sociale lo status non di rifugiato politico, ma di privilegiato politico, ossia lo status di minoranza. Nell’immaginario collettivo, costruito ad hoc, la minoranza è sempre vessata, sempre vittima, sempre inascoltata, sempre reietta, sempre esclusa, sempre discriminata, sempre incompresa (un’ideologia adolescenziale, verrebbe da dire). Ecco perché qualsiasi termine, seppur rispettoso nei confronti dei membri di questa minoranza, alla lunga non va mai bene e deve mutare. Se andasse bene vorrebbe dire che quella minoranza è stata finalmente accettata e quindi si dovrebbe interrompere la lotta per le proprie rivendicazioni sociali. Appena una parola nel suo uso sociale diventa concretamente inclusiva, ecco che se ne sceglie un’altra, etichettando la precedente come discriminatoria.

E dunque l’evoluzione, rectius, l’involuzione dei termini è specchio fedele della volontà di posizionarsi sempre nel contesto culturale come gruppo sociale fragile. Usare un termine ormai coattivamente passato di moda sarebbe dunque offensivo: vedi il caso di handicappato, ormai scalzato da tempo da “persona disabile” che non indica tanto un aumento di sensibilità collettiva verso questa categoria di persone – accrescimento di sensibilità che in alcuni casi pur esiste – ma piuttosto la diffusione di un pietismo che non guarda al reale bene della persona, una solidarietà pelosa che nulla ha a che vedere con l’autentico aiuto alle persone svantaggiate. Se così fosse, i bambini malati o malformati non verrebbero più abortiti.

FONTE : La Nuova Bussola Quotidiana

 

 

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