“Mi sposo, lo metto sui social, ma però non cambia niente”
Sep 14, 2022di Chiara Gnocchi
Dicono che quest’anno i matrimoni siano triplicati, perché i due anni passati non sono stati molto gettonati, “sai, per via del covid”. In effetti, prima del mio matrimonio, è stato un viavai di consigli e di suggerimenti non richiesti. “Cosa ti costa aspettare aspettare un altro po‘”, mi dicevano, “metti in pausa la tua smania di sposarti e attendi il via libera per fare il buffet in piedi”. E poi si sa, l’invitato in mascherina rende male nelle foto, toglie le good vibes all’album di nozze.
Amici e conoscenti mi suggerivano, nel frattempo, di iniziare a convivere, per abituarmi alla vita di coppia, per capire se davvero il mio futuro marito sarebbe stato la mia anima gemella, per testarci a vicenda e per analizzare bene l’affinità di coppia. A detta della società che sta al passo con i tempi io e il mio sposo, reciprocamente, ci saremmo dovuti convertire in merce con garanzia di recesso.
Ebbene da quest’anno, tolte le restrizioni, gli sposi, fatte salve le consolanti e lodevoli eccezioni (ne conosco alcune), possono finalmente celebrare il loro amore: dopo aver superato il test a crocette a fine corso di convivenza, con la promozione, inizia la festa. Tuttavia, ogni qualvolta provo a essere contenta che due giovani prendano coraggio di dire “sì” per sempre e inizio a convincermi che il percorso di ognuno per approdare al matrimonio è affar suo e farei meglio a star zitta, ecco che mi devo ricredere.
Nel momento in cui mi congratulo e garantisco che, se ce la stiamo cavando mio marito e io che non siamo la Sacra Famiglia, può riuscirci chiunque, ecco che i novelli sposi iniziano a fare le dovute distinzioni. Loro non faranno come noi, loro “si sposeranno, ma”. Con il “ma” avversativo, naturalmente.
Ecco alcune perle che i nuovi giovani dopo l’opportuno corso prematrimoniale in parrocchia, vengono a elencarmi sotto forma di accordi prematrimoniali.
Ci sposiamo, ma l’ho già detto a mio marito, per un paio d’anni niente figli perché vogliamo goderci un po’ la vita matrimoniale.
Ci sposiamo, ma continueremo a usare le precauzioni, devo finire il dottorato non posso proprio permettermi di rimanere incinta.
Ci sposiamo, ma siamo d’accordo: ognuno mantiene i suoi spazi, i suoi amici e le sue uscite.
Ci sposiamo, ma non vogliamo fare come quelli che diventano tutti casa e famiglia, ci divertiremo come prima, non cambierà niente.
E poi arrivano i miei preferiti: quelli che “ci sposiamo, ormai conviviamo da un anno, tanto vale. Però la notte prima delle nozze ognuno a casa dei suoi genitori, ci vediamo sull’altare”.
Nella perversione del mondo contemporaneo il matrimonio è ridotto al nulla cosmico. Ci si sposa senza sposarsi, si prende moglie o marito come se non fosse successo nulla più che una giornata di bagordi e si celebra un amore sterile, perché sterile è chi nega la vita che ne deriva. Ci si vuole fasciare negli abiti da cerimonia e fare i Vip per un giorno, ma si detesta la famiglia e la vita quotidiana che inizia dopo la festa.
L’eterno giovane che vive nel paese dei balocchi non vuol sentire parlare di essere un tutt’uno con la persona che ha scelto. E ciò deriva dalla lezioncina che ci propinano fior fiore di benpensanti secondo cui ciascuno è già completo così come è. E la pericolosità di questa menzogna è tanto potente da scardinare i principi base della famiglia, che vive e respira dell’afflato comune di padre, madre e figli, che non sta inisieme se manca un pezzo e che si compiace di non essere nulla se non in funzione degli altri. La famiglia terrena è a immagine e somiglianza di quella celeste e quindi fa paura.
Ma diciamola proprio tutta, a spaventare non è solo la paura di ricalcare un modello che non è più in voga: è il terrore di fare fatica, il terrore di doversi fare da parte. Alcuni amici di mio marito che auto elogiavano il loro impegno nel sociale, l’anno passato gli hanno chiesto se lui va a lavorare proprio tutti i giorni, nel senso di proprio tutti? E sentendosi rispondere che se non stesse fuori casa dodici ore al giorno la sua famiglia farebbe la fame, lo hanno guardato stupiti. Dopo un minuto di stupore hanno scrollato le spalle e hanno mostrato le foto della loro vacanza in catamarano. Sono arrivati fino in Marocco. Beh, se queste cose non le fai prima dei trentanni non le fai più. I figli sei sempre in tempo a farli, ma la traversata nel Mediterraneo poi te la scordi.
Ebbene, ecco un’altra parola magica: “esperienze”. Oggi contano solo le esperienze, il carpe diem di noantri. Il Catullo dei nostri tempi inneggia alla scoperta di se stessi e del mondo, bazzica le apericene in centro e prende tempo. Del resto, stai sciallo, si può fare tutto più tardi, intanto godiamocela. E non ci si accorge che in questo godersela sta il principio di ogni decadimento perché proprio nel momento in cui decido di non fare quel che devo, ma solo quel che voglio, dimostro non solo di avere uno sviluppo mentale fermo a quello di un bambino al primo anno di asilo, ma pure che quanto verrà dopo è meno importante del mio cincischiare ora.
Dunque, i nuovi giovani, freschi di lauree al sapore di niente, espertissimi in cultura generale, generalissima, cultura per sentito dire e per postato sui social, si sposano. ma non faranno una famiglia. E come festeggiare al meglio questa gigantesca finzione se non con un bellissimo viaggio di addio al celibato o al nubilato? Mi chiedo per quanto ancora dovrò scansare i viaggi a Ibiza di qualche conoscente che mi invita per dire addio alla sua vita da nubile e che, davanti al mio no accompagnato da un “preferirei vomitare”, se la prende in secula seculorum e non capisce cosa io ci trovi di male nel divertirsi un po’.
Forse dovrei lasciarmi andare, forse dovremmo lasciarci andare un po’ tutti noi moralisti e convincerci che non c’è niente di male in un bel weekend all’insegna del divertimento becero in mezzo al coro di amichette urlanti in bikini, per festeggiare un matrimonio che però è già stato testato, per celebrare delle nozze in cui nessuno crede e che non daranno alla luce alcuna famiglia, per dare l’addio a una vita che lasciano per un giorno e per poi proseguirla con ben poche differenze a viaggio di nozze concluso.
Le nuove donne, liberate dalle utopie delle fiabe tradizionali, refrattarie a principi e principesse perché, pare, siamo atterrate sul pianeta in cui tutte si sentono amazzoni, in realtà sono terrorizzate dal fatto che, “dopo” la bella cerimonia, verrà inevitabilmente un “dopo” comune, comunissimo, fatto di una normalità spiazzante.
Per loro la normalità che nelle sue fessure, quando vissuta con sincerità e impegno, nasconde degli spiragli di luce inaspettati, non è interessante. Non è degna di essere vissuta perché simile a mille altre normalità, perché non spicca nel feed su Insta, perchè ci ricorda che in fondo siamo poca cosa noi umani, che il superuomo è una porcata tremenda e che far quadrare i conti, i battibecchi, la stanchezza e le bollette inevase non ci stanno facendo vivere la nostra best life. Come possiamo vivere come gli altri proprio noi a cui hanno promesso che tutto sarebbe cambiato? I nuovi giovani imbevuti di modelli che rispondono alla pretesa di vivere nel paese delle meraviglie non ci stanno e a fare gli adulti nel mondo reale, ci giocano soltanto.
E così, noi che abbiamo scelto una strada da sfigati, che non prendiamo aerei e che facciamo una settimana di ferie l’anno, quando partecipiamo al matrimonio facciamo la parte degli spettatori. Noi, come il resto degli invitati che non ce l’ha fatta, facciamo da sfondo perfetto, poiché siamo perfettamente, assolutamente, mediocrissimamente normali.
Ma ogni tanto sogno che al prossimo matrimonio fiction qualcuno di noi riconosca un suo simile e possa dire le cose come stanno. Ogni tanto mi sembra di vedermelo davanti, il buon Gilbert K. Chesterton, grande, grosso e vestito in tweed, che dall’altro capo del tavolo ci strizza l’occhio ricordandoci che la strada verso casa nasconde sempre le avventure più belle.
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