Perché la gnosi è agli antipodi del cristianesimo
Sep 12, 2022di Francesco Lamendola
Abbiamo sostenuto più volte che la filosofia moderna ha seguito un percorso obbligato, una volta gettate le basi soggettiviste e antimetafisiche di Cartesio e di Kant; che nella svolta da essa rappresentata, rispetto alla filosofia classica, vi è stata, probabilmente, una cabina di regia, della quale ovviamente i singoli pensatori erano solo in parte, o non lo erano affatto, consapevoli; che il pensiero cabalistico e gnostico, di cui essa è profondamente intessuta, è radicalmente incompatibile con il cristianesimo, e che tale presenza e tale incompatibilità ben difficilmente possono ritenersi frutto del caso, d’un processo spontaneo, ma che molti indizi lasciano supporre esser stato ‘pilotato’ in quel senso, per imprimere una svolta irreversibilmente anticristica e anticristiana all’intero sviluppo della civiltà occidentale.
Della Cabala abbiamo già detto qualcosa, come pure dei punti qualificanti che differenziano in modo irrevocabile la filosofia moderna da quella classica; ci resta da dire qualcosa dello gnosticismo, che molti storici della religione si ostinano a vedere semplicemente come un’eresia, o una costellazione di eresie, fermentate all’interno del cristianesimo; oppure, il che sembra tutt’altra cosa, ma in realtà non lo è, che sia stato un insieme di scuole, di culti, di dottrine, nati e cresciuti parallelamente allo sviluppo del cristianesimo nel bacino orientale del Mediterraneo e nelle regioni del Medio Oriente a cavallo fra l’ellenismo e il mondo iranico, dal quale avrebbe preso numerosi spunti mitologici e teologici. In realtà, forse la questione dello gnosticismo diventa più chiara se la si inquadra nella prospettiva sopra accennata: cioè come la volontà d’infiltrare dall’interno il cristianesimo, introducendovi elementi sincretisti di tutt’altra origine (zoroastriana, manichea, mitriaca, ebraica e forse anche induista o buddista) e di accentuare ed esasperare elementi di origine platonica e soprattutto neoplatonica, in una fase storica che vedeva il cristianesimo impegnato ad assorbire e per così dire cercar di metabolizzare elementi importanti del pensiero greco, facendo perno sull’idealismo platonico e non certo sul realismo aristotelico che, per varie ragioni, verrà “sdoganato” dai teologi cristiani ed entrerà a far parte della filosofia cristiana solo molto più tardi, in particolare con la mediazione decisiva dei commentatori arabi, e poi di sant’Alberto Magno e di san Tommaso d’Aquino.
L’assoluta e radicale incompatibilità di cristianesimo e gnosi si evince chiaramente anche da ciò che scrive dello il grande storico delle religioni Mircea Eliade (da: Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. 2, Da Gautama Buddha al trionfo del cristianesimo (titolo originale: Histoire des croyances et des idées religieuses, Paris, Payot; trad. di M. A. Massimello e G. Schiavoni, Firenze, Sansoni, 1980, 1990, pp. 372-374):
È difficile precisare l’origine della corrente spirituale nota con il nome di gnosticismo. Occorre innanzitutto distinguerla dalle numerose gnosi ad essa precedenti o contemporanee, che facevano pare di arie religioni dell’epoca (lo zoroastrismo, i Misteri, il giudaismo, il cristianesimo); gnosi, quelle (…) che comportavano un insegnamento esoterico. Aggiungiamo che quasi tutti i temi mitologici ed escatologici trattati dagli autori gnostici sono anteriori allo gnosticismo “stricto sensu”; alcuni sono attestati nell’Iran antico e nell’India del tempo delle Upanishad, nell’orfismo e nel platonismo; altri caratterizzano invece il sincretismo di tipo ellenistico, il giudaismo biblico e inter-testamentario, o le prime espressioni del cristianesimo. Tuttavia, ciò che definisce lo gnosticismo “stricto sensu” non è l’integrazione più o meno organica di un certo numero di elementi disparati, bensì la reinterpretazione audace e singolarmente pessimistica di alcuni miti, idee e teologumeni di larga diffusione in quell’epoca.
Una formula della gnosi valentiniana, trasmessaci da Clemente Alessandrino, afferma che la liberazione si ottiene conoscendo «quel che siamo e quel che siamo divenuti; dove siamo e dove siamo stati gettati; verso quale fine ci affrettiamo e da dove noi siamo riscattati; che cos’è la nascita e che cos’è la rigenerazione» (Estratti da Teodoto, 78,2). A differenza delle Upanishad, del Samkhya-Yoga e del buddhismo – i quali evitano accuratamente di discutere sulle causa prima della decadenza umana, - la conoscenza redentrice insegnata dagli gnostici consiste anzitutto nella rivelazione di una “storia segreta” (o, più esattamente, rimasta segreta per i non iniziati): l’origine della creazione del Mondo, l’origine del Male, il dramma del Redentore divino disceso sulla Terra per salvare gli uomini e la vittoria finale del Dio trascendente, vittoria che si tradurrà nella conclusione della Storia e dell’annientamento del Cosmo. Si tratta di un MITO TOTALE, che concerne tutti gli avvenimento decisivi, dall’origine del mondo fino al presente e che, dimostrandone l’interdipendenza, garantisce la credibilità dell’”eschaton”. (…)
Per ritornare alla formula valentiniana, lo gnostico apprende che il suo VERO ESSERE (cioè il suo essere spirituale), è di origine e di natura divine, sebbene attualmente si trovi prigioniero in un corpo; egli viene anche a sapere che abitava una regione trascendentale, ma che fu in seguito scaraventato in questo basso mondo; ma che egli avanza rapidamente verso la salvezza e finirà per essere liberato dalla sua prigione carnale; scopre infine che, mentre la sua nascita equivaleva a una caduta nella materia, la sua ‘rinascita’ sarà di ordine puramente spirituale. Le idee fondamentali sono, per sintetizzare: il dualismo spirito/materia, divino (= trascendente)/anti-divino; il mito della caduta dell’anima (= spirito, particella divina), e cioè l’incarnazione in un corpo (assimilato a una prigione); la certezza della liberazione (la ‘salvezza’), ottenuta grazie alla gnosi.
Di primo acchito, si direbbe che ci troviamo di fronte a uno sviluppo smisurato, anticosmico e pessimistico, del dualismo orfico-platonico. In realtà, il fenomeno è più complesso. Il dramma dell’umanità – e cioè la caduta e la redenzione – riflette il dramma divino: Dio invia nel mondo un essere primordiale, o il proprio Figlio, per salvare gli uomini; questo essere trascendente subisce tutte le conseguenze umilianti dell’incarnazione, ma riesce a rivelare a pochi eletti la vera gnosi redentrice, prima di ritornare infine in Cielo. Alcune varianti amplificano in senso ancor più drammatico la discesa del Figlio o dell’Essere trascendente: esso viene catturato dalle Potenze demoniache e, abbrutito dall’immersione nella materia, dimentica la propria identità; Dio gli invia allora un Messaggero che, ‘svegliandolo’, lo aiuta a ricuperare la coscienza di se stesso (è questo il mito del ‘Salvatore salvato’), splendidamente narrato nell’”Inno alla Perla”). (…)
Malgrado alcuni paralleli iranici, il modello IMMEDIATO del Salvatore-messaggero di Dio è evidentemente Gesù Cristo. I testo scoperti nel 1945 a Nag Hammadi, nell’Alto Egitto, dimostrano l’origine giudeo-cristiana di alcune importanti scuole gnostiche, anche se le loro teologie e le loro morali sono radicalmente diverse da quelle professate dal giudaismo e dal cristianesimo. Anzitutto, per gli gnostici, il vero Dio non è il Dio Creatore, vale a dure Jahvè: la Creazione è opera delle Potenze inferiori, anzi diaboliche; o ancora, il Cosmo costituisce la contraffazione più o meno demoniaca di un mondo superiore – concezioni, queste, inconcepibili, tanto per i giudei, quanto per i cristiani,. È vero che, nel tardo paganesimo, la cosmogonia aveva perso ogni significato religioso positivo; ma gli gnostici si spingono ancora più oltre: non soltanto la creazione del mondo non costituisce più una prova dell’onnipotenza divina, ma essa viene addirittura spiegata come un incidente sopravvenuto nelle regioni superiori, o come il risultato dell’aggressione primordiale delle Tenebre contro la Luce (…). L’esistenza incarnata, poi, lungi dall’inquadrarsi in una ‘storia santa’, come la intendevano i giudei e i cristiani, conferma e illustra la caduta dell’anima: per lo gnostico, l’unico obiettivo dego di essere perseguito è la liberazione di questa particella divina e la sua risalita verso le sfere celesti.
Potremmo continuare citando altri passaggi, ma questi crediamo che siamo più che sufficienti a chiarire le idee un po’ confuse di certi “cattolici” e a mostrare la radicale antitesi e l’assoluta inconciliabilità esistente fra le svariate forme e correnti del pensiero gnostico (comprese quelle che assume, vestendo i panni della modernità, in numerose filosofie post-cartesiane e perfino nella teologia più recente) e la Rivelazione cristiana.
È tuttavia possibile che, a uno sguardo superficiale, balzi all’occhio una certa qual somiglianza con certe posizioni cristiane, specie della cristianità medievale, relative al disprezzo della condizione terrena e alla svalutazione pressoché totale della dimensione fisica della vita umana; posizione che, in verità, traggono la loro radice ultima non nel cristianesimo stesso, ma nel platonismo e nel neoplatonismo: nell’idea platonica del corpo come carcere o tomba del’anima, e nell’idea plotiniana che è una cosa vergognosa e umiliante possedere un corpo, con tutte le sue necessità e i suoi bisogni. Lotario Diacono (che sarebbe diventato papa col nome di Innocenzo III, dal 1198 al 1216), nel De contemptu mundi, farà una descrizione feroce delle miserie inerenti la condizione corporale:; però si dimentica che tali posizioni sono sempre state sostanzialmente marginali nel cristianesimo e non ne rivelano l’intima concezione antropologica, anzi ne tradiscono il sostanziale fraintendimento. In realtà, il pessimismo antropologico e quello addirittura cosmico presentano delle analogie piuttosto superficiali con le teologie e le soteriologie gnostiche: infatti nel cristianesimo si tratta di un aspetto, per quanto impressionante, nel complesso secondario; mentre nello gnosticismo è un aspetto centrale e fondante. Nella gnosi, infatti, il mondo è intrinsecamente cattivo; è radicalmente cattivo; e Dio o lo ha “subito”, nel senso che lo creato controvoglia e inconsapevolmente, oppure si è pentito poi averlo creato, lo ha distrutto e rifatto più volte (come insegnano certe scuole gnostiche) e solo alla fine, malvolentieri, si è adattato a riconoscere lo stato di fatto, mandando però il suo emissario per redimere gli uomini non dal male e dal peccato, ma dal fatto stesso di essere uomini, se l’uomo è una creatura formata di anima e di corpo, e per la quale anche il corpo ha un significato, che non è solo di ostacolo e d’impedimento al raggiungimento del fine cui è stato ordinato, ma possiede anche una sua intrinseca necessità, e quindi una sua dignità e una sua sacralità, che riemerge in maniera eloquente, ad esempio, in occasione delle esequie funebri. Infatti la cura di conservare il corpo, inumandolo, non si spiegherebbe nel corso dei secoli, se i cristiani considerassero una disgrazia il fatto di avere un corpo (e anche da ciò si vede come la recente abitudine di ricorrere alla cremazione dei corpi, anziché alla loro inumazione, rivela il fatto che i cristiani sono ancora tali solo formalmente, ma nella sostanza sono diventati, o meglio stanno ridiventando, pagani).
No, la cosa più importante non è una certa vaga rassomiglianza con un certo qual pessimismo antropologico; bensì la profonda, radicale, insormontabile e inconciliabile differenza per ciò che riguarda l’impianto complessivo della cosmogonia e di tutta la teologia cristiana e cattolica rispetto a quelle delle varie forme e scuole dello gnosticismo. Nel cristianesimo, che in questo caso si rifà interamente all’ebraismo, Dio crea il mondo (una volta sola, e senza alcun pentimento) e si compiace di tutto ciò che vi ha posto: e vide che era cosa buona, come dice ripetutamente il racconto della Genesi. Pertanto il mondo non è qualcosa di diabolico, e non lo diviene neppure dopo il peccato originale; ma qualcosa d’intrinsecamente buono, perché uscito dalle mani sapienti e amorevoli di Dio stesso, non per emanazione (dunque inconsapevolmente) ma per un atto creativo perfettamente consapevole e pienamente intenzionale. Pertanto, la Redenzione non è redenzione dal mondo in quanto tale, bensì redenzione da quella inclinazione alla concupiscenza, anticamera del peccato, che è la conseguenza del Peccato originale. Il mondo in se stesso, al pari dell’umanità, soffre e geme come nelle doglie del parto, dice san Paolo (cfr. Romani, 18,22), in attesa della Redenzione: non anela ad essere annichilito, se con ciò s’intende una distruzione che cancelli ogni traccia dell’esistente come si fosse trattato d’un esperimento non riuscito, di un errore cosmico della divinità. Niente affatto: le cose, che sono intrinsecamente buone (grande intuizione della filosofia di san Tommaso), anelano al riscatto, non alla distruzione: ad essere cioè trasfigurate e trasportate in una dimensione più alta, senza cancellarsi e senza scomparire nel nulla. I corpi risorti saranno corpi di luce, ma saranno ancora corpi (cfr. Marco, 12,18-27): e il fatto stesso che il Verbo si è incarnato in un corpo indica che, da parte di Dio, non vi è alcun pentimento rispetto alla creazione materiale, né alcuna intenzione di farla dimenticare alle creature, ma, al contrario, di redimerle nella carne, per poi farle risorgere nella carne.
Il cristianesimo è realista e, se si vuole, radicalmente ottimista quanto alla destinazione finale del creato; il quale è stato fatto per il bene e non per la distruzione irrevocabile. Tutte le cose che sono buone quaggiù (perché ve ne sono anche di cattive, ma non di una malvagità intrinseca e originaria, bensì come effetto di una perdita del bene che originariamente possedevano), non cesseranno di esistere, ma rinasceranno in Cristo e vivranno per sempre. Questa è la grande novità del cristianesimo: che è un messaggio di fede nell’esistente e di speranza nel futuro, non di pessimismo radicale e di radicale nichilismo. Il vero cristianesimo non vede affatto nel mondo materiale un carcere, una tomba e una maledizione, anche se aspira a liberarsi dalle costrizioni che appartengono alla finitezza per fare ritorno alla patria celeste. La quale non è la negazione e l’esatto opposto della condizione terrena, ma è la trasfigurazione di quest’ultima, la sua radicale spiritualizzazione: e in ciò consiste la sua redenzione. Io non sono venuto per condannare il mondo, dice Gesù Cristo perfino quando parla del “mondo” in senso teologico e negativo, cioè per indicare l’insieme delle forze che si oppongono intenzionalmente alla sua Redenzione – ma per salvare il mondo (Giovanni, 12,47).
L’idea di un Messaggero (si noti, non di un Redentore) mandato da Dio per ricordare agli uomini la loro natura divina, e che poi se ne scorda a sua volta, e deve essere a sua volta richiamato e salvato; nonché l’idea che tale soteriologia è riservata a quei pochi che intendono il messaggio esoterico dei Gesù, sono del pari inconciliabili con il vero cristianesimo, che è dottrina di salvezza rivolta a tutti, perché, se non fosse tale, non la si potrebbe neppur definire Evangelo, vale a dire “buona novella”. Una lieta novella, una novella di salvezza soprannaturale, riservata solamente ai pochi capaci della vera conoscenza, che razza di lieta novella sarà mai? E se la salvezza avviene per merito della gnosi, cioè della conoscenza segreta, a che serve il Sacrificio gratuito di Gesù Cristo sul legno della croce? Sacrificio che non è affatto vergognoso e umiliante, come appare alle scuole gnostiche (costrette, per tale motivo, ad inventarsi una presenza solo apparente di Gesù sul patibolo) ma segna, al contrario, il trionfo sublime di Dio fattosi uomo per amore degli uomini, che per essi muore e risorge vittorioso il terzo giorno, come aveva promesso. E poi, se Dio avesse creato un mondo cattivo, sarebbe egli stesso non Dio, ma il Diavolo: e in tal caso, sarebbe necessario un altro Dio per il riscatto dal male di esistere. Ma ciò equivarrebbe a porre il Bene e il Male, la Luce e le Tenebre, sullo stesso piano ontologico, come principi opposti e complementari, che in certo qual modo hanno bisogno l’uno dell’altro. E a quel punto ci vuole davvero un Hegel per superare tale dualismo ontologico – ma solo a parole.
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