Qual è la domanda essenziale della morale cattolica?
Oct 22, 2022di Francesco Lamendola
Che cos’è la legge morale? Che cosa insegna al fedele? Scrive Enrico Chiavacci (1926-2013), uno dei teologi più in vista della lunga stagione postconciliare, nella sua Teologia morale (vol. 1, Morale generale, Assisi, Cittadella Editrice, 1976, 1986, pp. 127-129):
Tutta la riflessione, la predicazione, la prassi morale cattolica ruota intorno alla domanda sul lecito e l’illecito. Non sono misteriosi i motivi che condussero la morale cattolica a questa sua fase riduttiva, e potremmo ridurli sinteticamente a tre:
1 – la degenerazione del concetto di legge naturale e la nascita del giusnaturalismo e del razionalismo: è un fenomeno che (…) si colloca fra il XIV e il XVI secolo.
2 – L’influsso del diritto sulla morale, e con esso il primato della categoria del lecito e dell’illecito. Intorno agli anni 1000 la Chiesa si trovò a dover essere, in Occidente, l’unica istanza giuridica accessibile, nella carenza o nell’incertezza dei poteri politici. Dovendo “jus dicere”, giudicare ciò che era secondo o contro il diritto, venne formandosi un “corpus juris” in cui avevano larga parte il diritto romano post-imperiale, largamente influenzato dall’annuncio morale cristiano, e le massime morali degli studiosi di filosofia e teologia, oltre che i decreti di vari sinodi locali in cui l’elemento morale si confondeva di necessità con quello giuridico. Un corpus juris così costruito, e munito di ripetute approvazioni della S. Sede, non poteva fare a meno a sua volta – con un fenomeno di feedback – di costituire una base sicura per le norme morali, facendo divenire precettisticamente astratta quella che era nata spesso come una casistica concreta di tipo giurisprudenziale.
3 - La rigida sistemazione dei compiti del penitente e del confessore – stabilita dal Concilio di Trento per il sacramento della Penitenza, e la contemporanea riforma degli studi ecclesiastici miranti, nei Seminari, a formare dei pratici più che dei teoreti. Las formazione seminaristica negli anni seguenti, e praticamente fino al Vaticano II, mirò a fare dei confessori ben preparati al loro compito di giudici, e i manuali di teologia si ridussero a istruzioni per i confessori, tanto più utili quanto più esauriente era l’elenco dei precetti gravi, lievi, e dei non-peccati (sfera del lecito) che tali somme offrivano.
Il Concilio Vaticano II – preceduto da pochi autori e scuole teologiche – ribalta l’idea stessa di ciò che deve essere lo scopo, la questione fondamentale della riflessione morale cristiana. Si confronti la definizione sopra data di teologia morale con la seguente definizione implicita, offerta dai documenti conciliari: «Specialis cura impendatur Theologiae morali perficiendae, cuius scientifica expositio doctrina S. Scripturae magis nutrita, celestudinem vocationis fidelium in Christo illustreret eorumque obligationem in caritate pro mundi vita fructum ferendi». Si vede subito che la domanda fondamentale è cambiata radicalmente: non più in astratto che cosa posso fare, ma a che cosa in concreto sono chiamato. Non più una sfera – la più ridotta e rigida possibile – dell’illecito, al di là della quale c’è il vuoto morale, la libertà come arbitrio; ma un impegno che sussiste in ogni singola scelta della vita di ciascuno, e che vede in ogni singola scelta una risposta “esistenziale” – collocata nel tempo, nello spazio, nella biografia irripetibile di ciascuno all’unica suprema vocazione al Regno, alla carità, alla sequela di Cristo.
È appunto in questa luce che va collocato il problema della coscienza certa: il problema non è più quello della liceità di ogni singolo comportamento, ma è quello della certezza (quasi sempre relativa) di ciò che qui e ora comporta la chiamata divina; e il “qui e ora” si riferisce non più a certi comportamenti, ma a tutti i comportamenti in qualche misura liberi, a tutta la storia umana di ogni singolo, che – nella sua identità nel tempo e nella sua inevitabile storicità – deve essere progressiva risposta a una vocazione, progressivo cammino verso Cristo.
In questa luce nulla è perduto degli ammaestramenti degli autori del passato: il criterio del probabilismo o dell’equiprobabilismo è sempre un criterio valido, profondamente saggio, e anzi tanto più necessario in quanto la varietà delle situazioni possibili, e quindi delle esitazioni e dei dubbi, si moltiplica all’infinito. Solo che – a nostro avviso – non si deve domandare agli autori in primo luogo la probabilità del non-peccato, ma piuttosto la probabilità di ciò che sia la chiamata; non si deve domandare un minimo morale garantito, quanto piuttosto un aiuto a discernere il massimo possibile di intensità possibile di risposta alla vocazione (la “celestitudinem” del Vaticano II). L’autore di teologia morale – come del resto il pastore di anime a tutti i livelli gerarchici – deve oggi trasformarsi da giudice rigido e insieme il più largo possibile, in compagno di vita e di ricerca della vocazione in Cristo propria di ogni essere umano. Il teologo moralista deve essere un aiuto costante e umile a che ciascuno possa agire secondo la «convinzione di fede.
Che dire di tutto ciò?
Sono molte le cose che non ci convincono in questi ragionamenti: bellissimi ragionamenti, puliti e forbiti, sostenuti da un poderoso apparato erudito, storico-critico, filologico, eccetera, ma che hanno un certo qual suono falso, perché insensibilmente, impercettibilmente, portano il lettore da un paesaggio noto, quella della fede cattolica di sempre, quello della vera dottrina e del vero magistero, ad un paesaggio inatteso, ignoto, ambiguo, dove le cose non sono ciò che sembrano, ma rivelano dei significati “altri”, non coerenti con le premesse, davanti ai quali ci si sente non solo spaesati, ma in certo qual senso raggirati, perché non è qui che si voleva andare, non è qui che ci era stato promesso che saremmo stati accompagnati.
Del resto, in un lampo di franchezza assai raro nei teologi liberali e progressisti, ad un certo punto al Nostro scappa detto, pari, pari: Il Concilio Vaticano II – preceduto da pochi autori e scuole teologiche – ribalta l’idea stessa di ciò che deve essere lo scopo, la questione fondamentale della riflessione morale cristiana. Niente di meno. E che altro? Il Concilio ha “ribaltato” il cuore stesso della morale cristiana. Vi sembra poco? E poi costoro hanno il coraggio di accusare i cattolici “tradizionalisti” (ma che brutta definizione!; non è forse la Tradizione una delle due fonti, accanto alla Scrittura, della Rivelazione divina, e dunque della fede di tutti i cattolici?) di denunciare la nascita, dopo il Concilio Vaticano II, di una seconda religione, nuova e sostanzialmente diversa, da quella di sempre?
Se poi andiamo a vedere in cosa consista tale “ribaltamento” e quale sia l’idea fondamentale della riflessione morale cristiana, troviamo questa risposta: prima del Concilio (perché di questo si tratta) la morale cattolica (per influsso specialmente del diritto romano) sul concetto del lecito e dell’illecito, e quindi, sul terreno pratico, sul che cosa posso fare, il che sarebbe precettistica astratta; poi, invece, e per fortuna, essa ha scoperto che la vera domanda fondamentale da farsi è a che cosa sono stato chiamato. Io, io singolo (Cartesio; Stirner?), qui e ora, non in un universo astratto (Sartre, Heidegger), in questa situazione concreta. Pertanto – questa è la conclusione – il teologo morale deve dismettere i panni del giudice severo (anche se, contraddittoriamente, il Nostro aveva riconosciuto che il criterio del probabilismo è sempre un criterio valido, profondamente saggio) per porsi e proporsi al penitente nelle vesti di un compagno di vita e di ricerca della vocazione in Cristo propria di ogni essere umano.
Ecco dunque da dove viene la “strana” pastorale di Bergoglio: è figlia di questa idea, che il sacerdote cattolico (lasciamo perdere il teologo, che il più delle volte è un sacerdote, e dovrebbe perciò rientrare nella categoria più grande) non deve essere una guida, ma un compagno, un compagno di strada, un compagno di viaggio, e addirittura un compagno di ricerca. Ricerca di che cosa? Del vero, evidentemente. Paradossale conclusione. Il prete non sa cosa sia il vero, non sa che significhi la chiamata; è un compagno di ricerca, uno che si pone sullo stesso piano esistenziale: non ne sa più del fedele comune, non ne sa più del penitente. Che cosa abbia da dirgli nel confessionale, a questo punto, se non le banalità generiche che potrebbe snocciolare qualunque laico, non si riesce a immaginare. La morale cattolica, pertanto, non è più un insieme coerente e oggettivo di valori e di comportamenti, ma una ricerca individuale e soggettiva, nella quale il teologo e il prete ne sanno, in buona sostanza, non più di chiunque altro, e dicono al fedele penitente, prendendolo sotto braccio, che egli deve chiedere a se stesso, non alla legge morale, in che cosa consista la propria chiamata.
Ecco da dove vengono le sciagurate parole della esortazione apostolica Amoris Laetitia (§ 304):
È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano. Prego caldamente che ricordiamo sempre ciò che insegna san Tommaso d’Aquino e che impariamo ad assimilarlo nel discernimento pastorale: «Sebbene nelle cose generali vi sia una certa necessità, quanto più si scende alle cose particolari, tanto più si trova indeterminazione. […] In campo pratico non è uguale per tutti la verità o norma pratica rispetto al particolare, ma soltanto rispetto a ciò che è generale; e anche presso quelli che accettano nei casi particolari una stessa norma pratica, questa non è ugualmente conosciuta da tutti. […] E tanto più aumenta l’indeterminazione quanto più si scende nel particolare». È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari. Nello stesso tempo occorre dire che, proprio per questa ragione, ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma. Questo non solo darebbe luogo a una casuistica insopportabile, ma metterebbe a rischio i valori che si devono custodire con speciale attenzione
E l’ancor più sciagurata conclusione sul terreno pratico (§ 305):
Pertanto, un Pastore non può sentirsi soddisfatto solo applicando leggi morali a coloro che vivono in situazioni “irregolari”, come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone. È il caso dei cuori chiusi, che spesso si nascondono perfino dietro gli insegnamenti della Chiesa «per sedersi sulla cattedra di Mosè e giudicare, qualche volta con superiorità e superficialità, i casi difficili e le famiglie ferite». In questa medesima linea si è pronunciata la Commissione Teologica Internazionale: «La legge naturale non può dunque essere presentata come un insieme già costituito di regole che si impongono a priori al soggetto morale, ma è una fonte di ispirazione oggettiva per il suo processo, eminentemente personale, di presa di decisione». A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti, è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa. Il discernimento deve aiutare a trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso i limiti. Credendo che tutto sia bianco o nero, a volte chiudiamo la via della grazia e della crescita e scoraggiamo percorsi di santificazione che danno gloria a Dio. Ricordiamo che «un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, può essere più gradito a Dio della vita esteriormente corretta di chi trascorre i suoi giorni senza fronteggiare importanti difficoltà». La pastorale concreta dei ministri e delle comunità non può mancare di fare propria questa realtà.
Tradotto in parole semplici: se un uomo lascia la moglie - che aveva sposato davanti all’altare, e quindi davanti a Dio - e va a vivere con un’altra donna, e ha dei figli con lei, e pertanto crea una nuova famiglia, ciò non è automaticamente male; non va necessariamente contro la legge morale, perché la legge morale «non è un insieme già costituito di regole che si impongono a priori al soggetto morale». E che cos’è, allora, la legge morale? È una fonte di ispirazione oggettiva per il suo processo, eminentemente personale, di presa di decisione. Strano scioglilingua: una fonte di ispirazione (non una legge, per carità!, ma una fonte d’ispirazione, un po’ come la bellezza per l’artista), però oggettiva. Dunque una fonte d’ispirazione, ma oggettiva e non soggettiva. Attenzione però: dopo aver dato un colpo al cerchio, ne arriva subito un altro alla botte; e dunque si parla di una «presa di decisione», precisando immediatamente che essa è «eminentemente personale». Vale a dire, in parole dirette, soggettiva.
Quante contorsioni, quanti salti mortali, mostrando di asserire una cosa, e invece intendendone un’altra, del tutto diversa. I pellirossa direbbero che questo è un parlare con lingua doppia, ossia con lingua di serpente Con l’aggravante di chiamare a sostegno della propria strategia dissimulata niente meno che le Scritture e sant’Agostino (nel § 306, che qui non riportiamo per ragioni di spazio). In buona sostanza: seguire la legge morale non significa fare il bene ed evitare il male, ciò che una volta i teologi morali ormai sorpassati chiamavano peccato; no: significa interpretare in maniera personale la chiamata di Dio. E a che cosa ci chiama, dunque, Iddio? Anche a fare il peccato? Sembra proprio di sì, vista la seguente affermazione: è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa. Di nuovo, traducendo: l’uomo che ha lasciato la moglie e si è unito a un’altra donna, forse (chi lo decide? il discernimento personale) è oggettivamene in una situazione di peccato, e tuttavia non è oggettivamente colpevole, o non lo è del tutto, e può seguitare a ricevere i Sacramenti.
La Chiesa non è forse, per usare una ben nota immagine bergogliana, un ospedale da campo? E in un ospedale, in un pronto soccorso, non si domanda ai feriti di esibire i documenti. Meravigliosa dialettica dei gesuiti! Quell’uomo, quell’adultero, quel bigamo, è peccatore, eppure non è colpevole; anzi, sta addirittura crescendo nella grazia di Dio. Com’è possibile? Il paradosso si spiega tenendo presente l’obiettivo non dichiarato di quel documento: sdoganare il peccato. Il che significa, sul piano pratico, che quell’uomo fa bene a seguitare così, a vivere con quell’altra donna: del resto, che potrebbe fare? Sono nati dei bambini: dovrebbe lasciare la loro madre, “solo” per tornare dalla moglie e dai figli di primo letto? E in nome di che? Di una morale astratta, di una precettistica rigida, che vede il mondo (horrbilis dictu) in bianco e nero? Attenzione, teologi: se voi vedete il mondo in bianco e nero, aggiunge Bergoglio, rischiate di chiudere agli uomini la via della grazia. Non la via del peccato; al contrario: la via della grazia. Il peccato è diventato grazia e la le morale è diventata precettistica arida e senz’anima, priva di carità e incapace di discernimento, e ostacolo alla grazia.
Eppure, come dice la Sacra Scrittura? Dice (Isaia, 5,20-21):
20 Guai a coloro che chiamano
bene il male e male il bene,
che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre,
che cambiano l'amaro in dolce e il dolce in amaro.
21 Guai a coloro che si credono sapienti
e si reputano intelligenti.
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