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Quando la Santa Sede raccomandava la Comunione sulla lingua come forma “più rispettosa e coerente” di ricevere la santa Eucaristia

aldo maria valli duc in altum Jul 04, 2023

di Aldo Maria Valli

Correva l’anno 1969. Il cardinale svizzero Benno Gut, prefetto della Congregazione dei riti, emanò un’istruzione, intitolata Memoriale Domini, con la quale, su mandato del papa Paolo VI, la Sede apostolica raccomandava vivamente la ricezione della Comunione sulla lingua e scoraggiava l’uso di riceverla sulla mano. Scriveva infatti: “Un cambiamento in cosa di tanta importanza, basata su una tradizione antichissima e veneranda, non tocca solo la disciplina; potrebbe dimostrarsi fondato il timore di eventuali pericoli derivanti da questo nuovo modo di distribuire la Comunione; il pericolo per esempio di un diminuito rispetto verso il Santissimo Sacramento dell’altare, o quello di una sua profanazione, o anche di un’alterazione della dottrina eucaristica”. Il documento riportava anche i risultati di una consultazione tra i vescovi, che dimostrava come un’ampia maggioranza dei presuli fosse contro il cambiamento. Siccome però in alcune aree, specie nel Nord Europa, la Comunione sulla mano si stava diffondendo, il documento spiegava: “Se poi in qualche luogo fosse stato già introdotto l’uso contrario, quello cioè di porre la santa Comunione nelle mani dei fedeli, la Sede apostolica, nell’intento di aiutare le Conferenze episcopali a compiere il loro ufficio pastorale, reso non di rado ancor più difficoltoso dall’attuale situazione, affida alle medesime conferenze il compito di vagliare attentamente le eventuali circostanze particolari, purché sia scongiurato ogni pericolo di mancanza di rispetto all’eucaristia o di deviazioni dottrinali su questo Santissimo Sacramento, e sia eliminato con cura ogni altro inconveniente”. Fu dunque aperto un pertugio. E attraverso quel pertugio la Comunione sulla mano dilagò, fino alla situazione attuale, segnata dal totale ribaltamento di quanto prescriveva la Santa Sede.

***

Istruzione Memoriale Domini [1]

Celebrando il memoriale del Signore, la Chiesa attesta con il rito stesso la sua fede in Cristo e lo adora: egli infatti è presente nel sacrificio e vien dato in cibo a coloro che partecipano alla mensa eucaristica.

Sta quindi molto a cuore alla Chiesa che l’Eucaristia si celebri e che ad essa si partecipi nel modo più degno e più fruttuoso, in assoluta fedeltà alla tradizione, quale si è affermata, con la ricca varietà della sua espressione, nella pratica vissuta della Chiesa, ed è giunta nel suo progressivo sviluppo fino a noi.

Che ci sia stata in passato varietà nel modo di celebrare e di ricevere l’Eucaristia è un fatto storicamente documentato; ma anche attualmente, per un beninteso adattamento del rito alle esigenze spirituali e psicologiche degli uomini del nostro tempo, sono stati introdotti, nella celebrazione dell’unica e medesima Eucaristia, non pochi ritocchi rituali, anche di un certo rilievo; e ritoccata è stata pure la disciplina che regola le modalità della Comunione dei fedeli, con la reintroduzione, in determinate circostanze, della Comunione sotto le due specie; era questo in passato il modo comune di far la Comunione, anche nel rito latino, ma era andato a poco a poco in disuso, tanto che il Concilio di Trento, resosi conto del nuovo orientamento pratico ormai generalizzato, lo sanzionò, sostenendolo con ragioni teologiche e dimostrandone l’opportunità in quella particolare contingenza storica [2].

L’antica disciplina ora ripresa è servita senza dubbio a porre in maggior risalto il segno del convito eucaristico e la dimensione piena del mandato di Cristo; ma questa stessa più completa partecipazione alla celebrazione eucaristica, attuata nel segno della Comunione sacramentale, ha fatto nascere qua e là, in questi ultimi anni, un altro desiderio: quello di ritornare all’uso primitivo di deporre il pane eucaristico nella mano del fedele, perché se lo porti lui stesso alla bocca, e si comunichi così direttamente. Anzi, in alcuni luoghi e in certe comunità, questo rito è stato già introdotto senza la previa approvazione della Sede apostolica, e talvolta senza che i fedeli vi fossero stati opportunamente preparati. È vero che in antico era abitualmente consentito ai fedeli di ricevere in mano il cibo eucaristico e di portarselo direttamente alla bocca; ed è vero che nei primi tempi i fedeli potevano anche prelevare il Santissimo dal luogo della celebrazione, soprattutto per servirsene come viatico, qualora avessero dovuto correre dei rischi per l’aperta professione della loro fede. Però le prescrizioni della Chiesa e gli scritti dei padri documentano con ricchezza grande di testi quale venerazione e quale attento rispetto si avesse per la Santa Eucaristia. «Nessuno si ciba di quella carne, senza aver fatto prima un atto di adorazione», dice Agostino [3]; e per il momento della Comunione, si fa a ogni fedele questa raccomandazione: «… prendi quel cibo, e bada che nulla ne vada perduto» [4]. «È il corpo di Cristo» [5].

Inoltre la cura e il ministero del Corpo e del Sangue di Cristo venivano affidati in modo tutto particolare ai sacri ministri o a persone appositamente scelte e designate: «Quando colui che presiede ha terminato le preghiere, e il popolo ha fatto la sua acclamazione, coloro che noi chiamiamo diaconi distribuiscono a ognuno dei presenti il pane, il vino e l’acqua su cui è stata pronunciata la preghiera di azione di grazie, e ne recano agli assenti» [6]. Fu così che il compito di recare la Santa Eucaristia agli assenti venne ben presto affidato ai Sacri Ministri soltanto, allo scopo di meglio assicurare da una parte la debita riverenza verso il corpo di Cristo, e di provvedere dall’altra più responsabilmente alla necessità dei fedeli.

Con l’andare del tempo, e con il progressivo approfondimento della verità del mistero eucaristico, della sua efficacia e della presenza in esso del Cristo, unitamente al senso accentuato di riverenza verso questo Santissimo Sacramento e ai sentimenti di umiltà con cui ci si deve accostare a riceverlo, si venne introducendo la consuetudine che fosse il ministro stesso a deporre la particola del pane consacrato sulla lingua dei comunicandi.

Questo modo di distribuire al Comunione, tenuta presente nel suo complesso la situazione attuale della Chiesa, si deve senz’altro conservare, non solo perché poggia su di una tradizione plurisecolare, ma specialmente perché esprime e significa il riverente rispetto dei fedeli verso la Santa Eucaristia. Non ne è per nulla sminuita la dignità della persona dei comunicandi; tutto anzi rientra in quel doveroso clima di preparazione, necessario perché sia più fruttuosa la Comunione al Corpo del Signore [7].

Questo rispetto significa che non si tratta di «un cibo e di una bevanda comune» [8], ma della Comunione al Corpo e al Sangue del Signore; in forza di essa «il popolo di Dio partecipa ai beni del Sacrificio pasquale, riconferma il nuovo patto sancito una volta per sempre da Dio con gli uomini nel Sangue di Cristo, e nella fede e nella speranza prefigura e anticipa il convito escatologico nel regno del Padre» [9].

Inoltre con questa forma ormai tradizionale è meglio assicurata una distribuzione rispettosa, conveniente e dignitosa insieme della Comunione; si evita il pericolo di profanare le specie eucaristiche, nelle quali «è presente in modo unico, sostanzialmente e ininterrottamente, il Cristo tutto e intero; Dio e uomo» [10] e si ha modo di osservare con esattezza la raccomandazione sempre fatta dalla Chiesa sul riguardo dovuto ai frammenti del pane consacrato: «Se tu ti lasci sfuggire qualche frammento è come se perdessi una delle tue stesse membra» [11].

Ecco perché quando alcune Conferenze episcopali e anche singoli vescovi chiesero che fosse loro consentito di introdurre nei rispettivi territori l’uso di deporre il pane consacrato nelle mani dei fedeli, il Sommo Pontefice stabilì che venissero consultati tutti e singoli i vescovi della Chiesa latina, perché esprimessero il loro parere sull’opportunità di introdurre quest’uso.

Un cambiamento in cosa di tanta importanza, basata su una tradizione antichissima e veneranda, non tocca solo la disciplina; potrebbe dimostrarsi fondato il timore di eventuali pericoli derivanti da questo nuovo modo di distribuire la Comunione; il pericolo per esempio di un diminuito rispetto verso il Santissimo Sacramento dell’altare, o quello di una sua profanazione, o anche di un’alterazione della dottrina eucaristica.

Ecco dunque le tre domande poste ai vescovi, e le relative risposte da essi pervenute fino al 12 marzo scorso:

  1. Si ritiene opportuno accogliere la petizione che, oltre al modo tradizionale di ricevere la Comunione, sia pure consentito di riceverla in mano?

Sì: 567. No: 1233. Sì con riserva: 315. Schede nulle: 20.

  1. Si è favorevoli a eventuali esperimenti di questo nuovo rito in piccole comunità, con l’assenso dell’ordinario del luogo?

Sì: 751. No: 1215. Schede nulle: 70.

  1. Si pensa che i fedeli, dopo una ben condotta catechesi preparatoria, accetteranno volentieri questo nuovo rito?

Sì: 835. No: 1185. Schede nulle: 128.

Dalle risposte date risulta chiaramente il pensiero della grande maggioranza dei Vescovi: la disciplina attuale non deve subire mutamenti; anzi un eventuale cambiamento si risolverebbe in un grave disappunto per la sensibilità dell’orientamento spirituale dei Vescovi e di moltissimi fedeli.

Tenuti quindi presenti i rilievi e le osservazioni di coloro che «lo Spirito Santo ha posto a reggere come vescovi le varie Chiese» [12] per l’importanza della cosa e il peso degli argomenti addotti, il Sommo Pontefice non ha ritenuto opportuno cambiare il modo tradizionale con cui viene amministrata ai fedeli la santa Comunione.

Pertanto la Sede apostolica esorta caldamente vescovi, sacerdoti e fedeli a osservare con amorosa fedeltà la disciplina in vigore, ora ancora una volta confermata; tengano tutti presente il giudizio espresso dalla maggior parte dell’episcopato cattolico, la formula attualmente in uso nel rito liturgico, il bene comune della Chiesa.

Se poi in qualche luogo fosse stato già introdotto l’uso contrario, quello cioè di porre la santa Comunione nelle mani dei fedeli, la Sede apostolica, nell’intento di aiutare le Conferenze episcopali a compiere il loro ufficio pastorale, reso non di rado ancor più difficoltoso dall’attuale situazione, affida alle medesime conferenze il compito di vagliare attentamente le eventuali circostanze particolari, purché sia scongiurato ogni pericolo di mancanza di rispetto all’eucaristia o di deviazioni dottrinali su questo Santissimo Sacramento, e sia eliminato con cura ogni altro inconveniente.

In questi casi, per un’opportuna normativa del nuovo uso, le Conferenze episcopali, esaminata con prudenza la cosa, prenderanno le loro deliberazioni con votazione segreta, a maggioranza di due terzi, e presenteranno poi il tutto alla Santa Sede, per averne la necessaria conferma [13] allegandovi una accurata esposizione dei motivi che le hanno indotte alle deliberazioni stesse. La Santa Sede vaglierà con cura i singoli casi, tenendo anche presenti i rapporti che uniscono le varie Chiese locali tra di loro, e ognuna di esse con la Chiesa universale, per il bene comune, per lo comune edificazione, e per l’incremento di fede e di pietà che il vicendevole esempio reca e promuove.

Questa istruzione, preparata per mandato speciale del sommo pontefice Paolo VI, è stata da lui approvata, in forza della sua autorità apostolica, il 23 maggio 1969. Egli ha inoltre disposto che per il tramite dei presidenti delle Conferenze episcopali fosse portata a conoscenza di tutti i vescovi.

Nonostante qualunque cosa in contrario.

Roma, 29 maggio 1969.

Benno card. Gut, prefetto

Bugnini, segretario

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1 [1] Istr. Memoriale Domini, cit.

[2] Cfr. Conc. Trid., Sess. XXI, Doctrina de communione sub utraque specie et parvulorum: DS 1726-1727; Sess. XXII, Decretum super petitionem concessionis calicis: DS 1760.

[3] Cfr. S. Agostino, Enarrationes in psalmos 98, 9: PL 37, 1264.

[4] S. Cirillo di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche V, 21: PG 33, 1126.

[5] Ippolito, Traditio apostolica, n. 37: ed. B. Botte, 1963, p. 84S. Giustino, Apologia I, 65: PG 6, 427.

[6] S. Giustino, Apologia I, 65: PG 6, 427.

[7] Cfr. S. Agostino, Enarrationes in psalmos 98, 9: PL 37, 1264-1265.

[8] Cfr. S. Giustino, Apologia I, 66: PG 6, 427; S. Ireneo, Adversus haereses 4, 18, 5: PG 7, 1028-1029.

[9] Sacra Congregazione dei Riti, Istr. Eucharisticum mysterium, n. 3n: AAS 59 (1967), 541; EV II, 1296.

[10] Cfr. ibid., n. 9: AAS 59 (1967), 547; EV II, 1309.

[11] S. Cirillo di Gerusalemme, Catechesi mistagogiche V, 21: PG 33, 1126.

[12] Cfr. Act. 20, 28.

[13] Cfr. CD 38, 4; AAS 58 (1966), 693; EV I, 686.

 

 

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