Quietismo, una vecchia eresia che sa di presente
Oct 01, 2022di Francesco Lamendola
Si è sempre parlato poco, e ancor oggi si sa o si ricorda pochissimo, almeno presso la grande massa dei cattolici, della dottrina nota come quietismo, di cui è considerato ispiratore il sacerdote spagnolo Miguel de Molinos (1628-1696), condannato dall’Inquisizione nel 1687 per eresia e immoralità e che non va confuso con il teologo gesuita Luis de Molina (1535-1600), benché i seguaci di entrambi siano talora chiamati, erroneamente, con lo stesso nome di molinisti.
Nel 1675 Molinos pubblicò una Guida spirituale che disinvolge l’anima e la guida per l’interior cammino all’acquisto della perfetta contemplazione e del ricco tesoro della pace interiore, opera che ebbe subito uno straordinario successo e che fu raccomandata pubblicamente dall’arcivescovo di Palermo ai suoi diocesani. Portatosi a Roma, Molinos celebrava la messa in varie chiese dell’Urbe, fra le quali San Pietro in Vincoli e S. Andrea del Quirinale; frequentava cardinali e alti porporati, era bene accolto nei migliori salotti e le gran dame dell’aristocrazia romana andavano a confessarsi da lui e lo eleggevano a loro direttore spirituale. In breve, nel giro di pochi anni egli era divenuto una celebrità. Forse a quel punto concepì un disegno più ambizioso: creare un movimento spirituale che rinnovasse dall’interno la vita della Chiesa e offrisse una sorta di via alternativa allo scontro frontale fra il dogma cattolico e le eresie dilaganti, facendo leva sulla profonda aspirazione alla pace che animava le coscienze del tempo, turbate da tante violenze e tante lotte, culminate nelle guerre civili in Francia e nella Guerra dei Trenta Anni in tutta Europa, oltreché dalle continue azioni giudiziarie dell’Inquisizione.
Bisogna osservare, però, che il successo della Guida spirituale di Molinos, se fu grande in Italia e nei Paesi cattolici, era stato ancora più grande nei Pesi riformati: in un breve arco di temo ne vennero fatte, delle traduzioni in olandese e in inglese, oltre che in francese e, nella Germania protestante, a Lipsia, in latino (l’edizione originale era in spagnolo) e ciò, senza dubbio, oltre ai contenuti teologicamente ambigui, seppure psicologicamente melliflui della sua dottrina, attirò l’attenzione dei gesuiti, che allora erano i campioni della più stretta ortodossia e si opponevano con forza a qualunque tentativo di adulterarla o indebolirla in vista di un “dialogo”, parola oggi assai di moda ma allora più che sospetta, con le dottrine anticattoliche. Un altro elemento che destava perplessità e diffidenza nei confronti di Molinos era che nei conventi dove erano presi alla lettera i consigli della sua Guida spirituale, e i direttori spirituali li insegnavano, specie alle monache, correva voce che si verificassero dei disordini morali, che taluno addebitava appunto all’influsso di quella dottrina.
Sta di fatto che i gesuiti si mobilitarono per mettere in guardia i fedeli e scesero in campo i loro scrittori e i predicatori più illustri, come Daniello Bartoli e Paolo Segneri, con degli scritti specifici che richiamavano l’importanza di una spiritualità che non fosse semplicemente quietista e che non conducesse ad abbandonare le pratiche religiose e la frequenza dei Sacramenti. Finché Molinos, nel 1685, fu tratto in arresto, processato e condannato, dopo due anni d’indagini, al carcere perpetuo, per eresia e immoralità, previa l’abiura di rutti i suoi errori. Il quietismo fu condannato ufficialmente dal pontefice Innocenzo XI con la costituzione Coelestis Pastor del 20 novembre 1687. I punti principali della condanna si riassumono nella svalutazione dello sforzo verso la santità cui l’anima è chiamata e nella esagerazione del ruolo della grazia, che pare annulli la volontà; inoltre nella tendenza a scivolare in una forma di panteismo, laddove si insegna che l’anima deve “lasciarsi andare” ad una forma di unione mistica con Dio che sembra abolire la distinzione fra la creatura ed il suo Creatore.
È utile a questo punto citare una pagina del libro di Pietro Barrera Una fuga dalle prigioni del Sant’Uffizio (1693), Milano, Mondadori, 1934, pp. 23-27):
La “Guida” ha avuto esagerati ammiratori anche in tempi recenti, come Giovanni Amendola che, nella prefazione a un’edizione da lui curata, presenta addirittura Molinos come «autore di un tentativo di riforma interna della Chiesa, nobilmente progettato e cominciato ad attuare, un tentativo h se avesse potuto trionfare, avrebbe forse ricondotto all’unità religiosa l’Europa e cambiato in alcuni punti essenziali il corso dei secoli». Una tale esaltazione è così assurda che non vale la pena di perder tempo a confutarla. In realtà Molinos fu propagatore di dottrine non originali, che si riannodano in pare a quelle dei giansenisti, dottrine che si svilupparono e si rafforzarono in lui per il successo che, forse contro le sue stesse speranze, esse incontrarono nel gran mondo e specialmente presso le grandi dame di cui egli fu per molti anni il confessore alla moda. S’illuse, vedendo con orgoglio soddisfatto correre in folla al confessionale le pententi romane, di esser destinato a riportare la serenità attesa dal mondo ancora stordito dalle lotte finite con il trionfo della Chiesa. L’esaurirsi rapido delle prime edizioni del libro sembrò dargli ragione. Si trattava di dottrine che avevano valore in quanto erano abilmente manipolate e più abilmente propinate da un uomo attraente, distinto, con una bella barba nera che incorniciava il viso vivace, che sapeva insinuarsi con untuosa dolcezza presso le grandi famiglie, i cardinali e perfino presso il papa Innocenzo XI che lo fece abitare per qualche tempo un Vaticano.
Che le dottrine di Molinos non fossero bene accette ai gesuiti (Amendola lo compiange come vittima del gesuitismo trionfante), si comprende facilmente. Essi vedevano di mal occhio il giansenismo e i suoi derivati tanto per ragioni dommatiche quanto per ragioni politiche: forse lo ritenevano più pericoloso dello stesso protestantesimo da cui derivava, perché mentre i protestanti negavano assolutamente la tradizione, i giansenisti negavano le interpretazioni e le aggiunte che secondo essi l’avevano deformata, sostenendo, con il consenso di gente appartenente alle classi colte, fra le quali specialmente avevano fatto proseliti, la loro assoluta ortodossia nonostante la condanna di Richelieu, prevalentemente politica, e quella di Innocenzo XI con la bolla del 1° giugno 1653, essenzialmente religiosa. In Francia l’opposizione di Richelieu non aveva fatto gran danno ai seguaci di Giansenio, anzi essi, con l’andare degli anni, avevano visto aumentare le simpatie perché secondavano nel campo religioso quell’atteggiamento di opposizione intransigente che Luigi XIV e Mazzarino avevano assunto contro Innocenzo X e Alessandro VII favorevoli al partito spagnolo e che aveva ridotto quasi al nulla l’intervento della Chiesa nelle discussioni e nella conclusione della pace dei Pirenei. La politica francese fu di ostacolo continuo alla vittoria della restaurazione cattolica di cui i gesuiti erano i più ardenti paladini e il giansenismo era un prodotto di marca prettamente francese. Il cattolicismo, per superare questi ostacoli, dové arrivare alla maniera forte di Innocenzo XI che non si lasciò imporre dall’assolutismo superbo del Re Sole. E allora il giansenismo e le altre dottrine più o meno velatamente eretiche, vacillarono. Ma tanto al giansenismo in Francia, quanto al molinismo in Italia, non mancarono aderenti, specie fra quelli che erano stanchi dell’irruente combattività gesuitica e che credevano di trovare un rifugio riposante in qualche cosa di vago, di morbidamente mistico, che dava l’illusione di un ritorno a tranquillità lontane. Simpatie di contrasti, smania di nuovo, quindi anche, forse, successo di moda.
Molinos ebbe la fortuna di iniziare la sua azione sotto Clemente IX, alla cui fiacca remissività non doveva dispiacere il consiglio dato dallo spagnolo ai direttori spirituali di agire “soavemente”. Il raggiungimento della perfezione avveniva, secondo lui, con il distacco “mentale” dalle cose mondane, con la fede “mistica” in Dio, che, se vuole, ci salva anche se siamo inerti ad aspettare la Sua grazia. Arrivava così a negare valore alle pratiche religiose e ai sacramenti, a giustificare peccati perché indipendenti dalla volontà. Nel suo libro non fa che ricamare variazioni sugli stessi temi. L’anima giunge con la fede “mistica” alla quiete della contemplazione: questa fede le dà la conoscenza generale e confusa di Dio che le deve bastare: ogni immaginazione che rappresenti Dio in forma concreta non può che turbare i rapporti con l’anima, che non deve parlare con Lui, ma lasciarsi prendere nel silenzio. Non la meditazione, ma la contemplazione le permettono di trovare la verità universale. La sensibilità è per i principianti che hanno bisogno di conoscere l’oggetto delle loro aspirazioni, mentre l’aridità è il privilegio delle anime forti: Dio, non facendo sapere come operi in esse, toglie loro un motivo di presunzione. Il credente deve preparare il suo cuore «a guisa di una carta bianca dove la divina sapienza possa formar ei caratteri a suo piacimento». Le tentazioni contro la fede, la lussuria, la gola, tutti i peccati sono umiliazioni della superbia e rimedi salutari per lo spirito. Quando si è consegnato se stesso alla volontà divina non c’è da fare alcun altro atto sensibile, non occorre ripeterlo a Dio «nello stesso modo che uno che ha deciso di andare a Roma s’incammina e va e non deve dire e ridire a se stesso: Io vado a Roma, io voglio andare a Roma». In tutto basta la buona disposizione. Anche le penitenze “indiscrete”, eccessive, inacerbiscono l’anima e nello stesso tempo la gonfiano d’orgoglio. Nella sua operetta Molinos dà anche consigli per la scelta del direttore spirituale a cui occorre affidarsi abbandonando la lettura dei libri mistici che confondono le idee. Bisogna che il direttore spirituale assegni «penitenze che siano di materia utile e moderate»; egli deve cercare di ottenere dalle sue penitenti la segretezza assoluta sui consigli che dà «benché alle donne sia difficile il silenzio». «Giungere a Dio attraverso il nulla» è la formula che riassume il pensiero del prete spagnolo.
Come si vede, nel quietismo è implicita, e a volte anche esplicita, la svalutazione delle opere a favore della sola fede: un tratto che di per sé conferma la sua derivazione dal giansenismo (che pure, per tanti aspetti, con il suo rigorismo ascetico, è agli antipodi del quietismo), e in senso lato dal protestantesimo. Anche l’indulgenza verso il peccato, visto come uno strumento per combattere la superbia del credente che pretende di acquisire meriti presso Dio, se non addirittura come un qualcosa di cui l’anima che si abbandona a Dio non è più responsabile, poiché essa vive ormai in una dimensione puramente spirituale mentre il corpo è ancora immerso nella dimensione carnale, è un’idea eterodossa, di per sé erronea ed eretica, che svaluta l’impegno morale nella lotta contro le tentazioni e par quasi far ricadere su Dio la responsabilità ineludibile cui l’uomo è tenuto dal fatto del libero arbitrio.
Ma possiamo spingerci oltre. Nel quietismo confluiscono tratti caratteristici di antiche dottrine non cristiane e di antichissime eresie: l’idea che l’anima non deve fare né desiderare più nulla, oltre ad abbandonarsi interamente in Dio, è di derivazione indiana, e precisamente buddista; l’idea che bisogna rinunciare a ogni forma di conoscenza intellettiva di Dio e lasciare che sia Lui a operare in noi, senza alcun impegno intenzionale da parte nostra (e senza che vi concorra lo sforzo di condurre una vita moralmente vigile) rimanda almeno in parte al neoplatonismo alessandrino; mentre quella che lo studio e la lettura dei testi di ascetica è inutile, e che il “vero” cristiano è colui che ha smesso di lottare contro il mondo perché attinge a una verità che si rivela direttamente da Dio, in maniera inesplicabile e puramente interiore, è luterana e porta con sé, quale logico corollario, la svalutazione del clero come elemento di mediazione, e l’idea del sacerdozio universale dei credenti. La requisitoria contro la corruzione dei costumi ricorda un tema caro ai mistici tedeschi e subito dopo ai protestanti. Infine l’idea del distacco mentale dalle cose del mondo quale premessa all’abbandono in Dio, e non come effetto di esso, ha un sapore inequivocabilmente gnostico: specie se unita a quella che esistono due livelli di fede, uno per le anime grossolane e uno per le anime speciali, alle quali è stato indicato il modo di porsi a un livello superiore. È sempre l’eterna gnosi, dentro e fuori il cristianesimo, che torna di continuo a far capolino. Riconosciuta e respinta da un lato, subito riappare da un altro, sotto mentite spoglie. La sua abilità consiste nel confondersi, nel dissimularsi: si presenta in vesti rassicuranti, perfettamente ortodosse; proclama la sua innocenza e rifiuta con sdegno qualunque sospetto la riguardi.
Il quietismo tradisce un aspetto ricorrente dell’atteggiamento umano verso Dio: la ricerca di una unione “mistica” che abolisce responsabilità e differenze, di una “pace” interiore che non è la pace promessa da Gesù Cristo quando dice: Vi lascio la pace, vi do la mia pace; non ve la dio come la dà il mondo (Gv 14,27), ma è piuttosto una pace di compromesso con l’errore e il peccato, cioè il suo esatto contrario. Tradisce anche l’eterno richiamo della gnosi verso una fede rivelata ad alcuni in maniera speciale, esoterica, distinta dall’insegnamento riservato alla massa, e che conduce alla salvezza per una via insolita, sostanzialmente individualistica e staccata dal Corpo mistico di Cristo, la Chiesa. Oggi quasi ci stupiamo che le idee di Molinos, in apparenza così innocue, siano state condannate con tanta fermezza; ma il nostro stupore mostra quanto quelle idee sono penetrate in noi.
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