Realismo moderato tomista e senso comune
Aug 21, 2022di Francesco Lamendola
Scrive padre Réginald Garrigou-Lagrange (Auch, 21 febbraio 1877-Roma, 15 febbraio 1964) nella sua mirabile Sintesi tomistica (titolo originale La Synthèse Thomiste, Paris, Desclée De Brouwer, 1950; trad. dal francese di Ignazio Paci O.P., Brescia, Queriniana Editrice, 1953, pp. 43-45):
- Tommaso insegna con Aristotele che il primo oggetto conosciuto dalla nostra intelligenza è l’essere intelligibile delle cose sensibili. Questo è l’oggetto della prima apprensione intellettuale che precede il giudizio. Cf I, q. 5, a. 2 «Primo in conceptione intellectus cadit ens; quia secundum hoc unumqodque conoscibile est in quantum est in actu; unde ens est proprium primum audibile». Vedi anche I, q. 85, a. 3; I-II, q. 94, a. 2; Contra Gentes, I, II, c.83: De Veritate, q. I, a. 1. Ora l’essere è ciò che esiste (essere attuale) o può esistere (essere possibile), id cuius actus est esse. Inoltre l’essere che la nostra intelligenza conosce prima di tutto non è l’essere di Dio, né l’essere del soggetto pensante, ma l’essere delle cose sensibili: «Quod statim ad occursum rei sensatae apprehenditur intellectu» (San Tomm., De anima, I, II, c. 6, lez. 13, de sensibili per accidens). Infatti la nostra è l’ultima delle intelligenze ed ha per oggetto proprio o proporzionato l’ultimo degli intelligibili, che è l’essere intelligibile delle cose sensibili: I, q. 76, a. 5. Mentre il bambino conosce attraverso i sensi la bianchezza e il sapore del latte, per usar un esempio, afferra coll’intelligenza l’essere intelligibile di questo oggetto sensibile, «per intellectum apprehendit ens dulce ut ens et per gustum ut dulce». Nell’essere intelligibile così conosciuto la nostra intelligenza afferra prima di tutto la opposizione al non essere, opposizione espressa nel principio di contraddizione, l’essere non è il non-essere. (…)
Quindi la nostra intelligenza conosce l’essere intelligibile e la sua opposizione al niente, prima di conoscere esplicitamente la distinzione fra l’io e il non-io. Poi, riflettendo sul proprio atto conoscitivo giudica dell’esistenza attuale della tal cosa sensibile singolare appresa dai sensi: cf. I, q.86, a. 1; De veritate, q. 10, a.5. L’intelligenza conosce prima l’universale, mentre invece i sensi apprendono il sensibile e il singolare.
Fin dal suo punto di partenza il realismo tomistico appare per tal modo come un “realismo moderato” secondo il quale l’universo, pur esistendo formalmente, in quanto universale, nelle cose singolari, ha in queste il suo fondamento. In tal modo la dottrina tomistica s’innalza fra i due estremi, considerati come due deviazioni: il REALISMO ASSOLUTO di Platone, il quale ritiene che l’universale esista formalmente al di fuori della mente (idee separate), e il NOMINALISMO, il quale nega che l’universale abbia un fondamento nelle cose singolari e riduce l’universale ad una rappresentazione soggettiva accompagnata da un nome comune. Mentre il realismo platonico pensa che si abbia una intuizione intellettuale confusa dell’essere divino o dell’Idea del Bene, il nominalismo apre la via all’empirismo e al positivismo, che riducono i primi principi razionali a semplici leggi sperimentali dei fenomeni sensibili, come per esempio il principio di causalità a questo enunciato: Ogni fenomeno suppone un fenomeno antecedente. Se fosse così, i primi principi della ragione non sarebbero più leggi dell’essere, ma soltanto leggi dei fenomeni, e non permetterebbero più d’innalzarsi alla conoscenza di Dio, causa prima, che supera l’ordine dei fenomeni. Il realismo moderato di Aristotele e di S. Tommaso è conforme alla intelligenza naturale spontanea, chiamata senso comune. Ciò apparisce specialmente da quello che il realismo moderato insegna circa il valore reale e la importanza dei primi principi razionali. Esso ritiene che l’intelligenza naturale afferra i primi principi nell’essere intelligibile che è l’oggetto della prima apprensione intellettuale. Quindi tali principi le appariscono non solo come leggi mentali ossia leggi della logica, né solo come leggi sperimentali dei fenomeni, ma come leggi necessarie e universali dell’essere intelligibile o del reale, di ciò che è o può essere. Questi principi son subordinati nel senso che dipendono da un primo principio, il quale afferma ciò che per prima cosa conviene all’essere.
Il principio assolutamente primo enuncia l’opposizione che esiste fra l’essere e il niente. La sua formulazione negativa è il PRINCIPIO DI CONTRADDIZIONE: «l’essere non è il non-essere» o «una medesima cosa non può essere e non essere sotto lo stesso rapporto e nel medesimo tempo». La sua formula positiva è il PRINCIPIO D’IDENTITÀ: «ciò che è, è; ciò che non è, non è»; il che equivale a dire: l’essere non è il non-essere; come si dice: il bene è il bene, il male è il male, per dire che l’uno non è l’altro. Sul valore reale e sull’universalità del principio di contraddizione cf. S. Tommaso, In Metaphysic., 1, IV, lez. 5-15. Secondo questo principio ciò che è assurdo, come un circolo quadrato, è non solo INIMMAGINABILE, non solo INCONCEPIBILE, ma assolutamente ineffettuabile. Fra la pura logica di ciò che può concepirsi e il concreto materiale vi son le leggi universali del REALE., Così è già affermata la capacità della nostra intelligenza a conoscere le leggi dell’essere extramentale.
Il senso comune, o intelligenza naturale spontanea, ci fa avvertiti che il mondo è popolato di enti reali: alcuni attuali, altri potenziali, possibili e futuri. Un seme è una pianta possibile, poiché, se non intervengono fattori inibitori, noi sappiamo che esso diverrà realmente una pianta; e così un bambino è un ente possibile, quando vi sono due persone giovani di sesso diverso che desiderano avere dei figli. Tutti questi enti sono reali perché esistono effettivamente, nel mondo della realtà fattuale e non solo nella mente del soggetto che li pensa, come i contenuti di un sogno nella mente del sognatore, o quelli di una fiaba in colui che la narra e in colui che l’ascolta, o, ancora, come dei triangoli, o dei cerchi, o dei numeri, nella mente di un matematico. Anche questi ultimi sono enti, e godono di un certo grado di esistenza: ma essa è limitata all’ambito soggettivo e non si attua nella sfera del mondo reale, perché essi sono privi di consistenza fisica e possono svanire in un attimo, così come hanno iniziato a esistere dal nulla: mentre gli enti materiali non compaiono dal nulla, ma solo da un processo di generazione che ha dei tempi e delle modalità ben precisi. Una quercia non compare d’improvviso: ci vuole un seme e sono necessari molti anni di progressivo accrescimento affinché si sviluppi la pianta adulta; allo stesso modo una statua, un dipinto, un edificio, sono il risultato di un’opera specifica di progettazione e attuazione. Tanto gli enti reali che gli enti mentali, tanto gli enti fattuali che gli enti possibili, peraltro, formano il quadro della realtà intelligibile: possono essere pensati e, per ciò stesso, compresi dalla ragione. Certo, non tutti gli enti mentali trovano riscontro nel mondo reale e concreto: un cavallo alato potrà vivere solo nel mondo di ciò che è pensabile. Altri enti mentali sono situati, per così dire, al limite estremo dell’intelligibile: l’isola che non c’è, per esempio, può essere descritta a parole e perfino posta al centro di una storia, ma di fatto non è pensabile, perché pensarla implica una contraddizione o, per dir meglio, un’impossibilità logica: se non c’è, significa che qualsiasi isola pensata non può essere quella, ma un’altra. Nemmeno una settimana di otto giorni può essere pensata, ma solo enunciata a parole: infatti a tale espressione verbale non corrisponde alcunché di esistente, neppure a livello immaginativo; si tratta di un paradosso logico che si serve di un’espressione indecifrabile e inintelligibile.
Ora, fra tutte le filosofie elaborate nel corso della storia, solo quella di san Tommaso d’Aquino risulta in perfetto accordo, ma un accordo profondo e ragionato e non superficiale, con l’evidenza del senso comune: è l’applicazione più rigorosa, sistematica e di ampio respiro della ragione naturale, impiegata secondo premesse dimostrate e secondo forme e categorie logiche e coerenti fra di loro. In tutte le altre filosofie si trovano alcune note stridenti, alcuni passi falsi della ragione, alcune premesse immotivate e alcune conclusioni illogiche o incoerenti o maggiori delle premesse medesime. Tutti gli altri filosofi si prendono il lusso di fare qualche affermazione gratuita; non di rado ripetono più volte, adoperando parole diverse, il medesimo concetto, e procedono come se lo avessero argomentato e dimostrato, mentre non hanno fatto né l’una cosa, né l’altra. Solo in san Tommaso la ragione naturale procede in modo così rigoroso e armonioso rigoroso da non lasciare spazio ad alcuna affermazione gratuita, da non costruire un solo passaggio nel quale ogni pensiero, ogni parola non siano stati vagliati, soppesati, e rispetto ai quali non siano state prese in considerazione tutte le obiezioni logiche possibili. E nemmeno tutti i tomisti sono stati all’altezza del maestro, sia nel Medioevo che dopo. Quasi tutti, infatti, hanno commesso una deviazione in apparenza piccola, ma importantissima, dalla traccia originaria: hanno perso di vista che il grande merito di san Tommaso è aver incentrato la sua ricerca sull’unità dell’essere, sull’essere come actus essendi, come puro esse e non come aliquid, come qualcosa, e sia pure come una modalità o una categoria dell’ente. Questa piccola ma significativa deviazione consiste precisamente nell’identificare l’essere con l’aliquid, per esempio come fa Aristotele, con la categoria della sostanza, che è più o meno come dire dell’essenza. Ma l’essere non è una categoria, non è una modalità dell’ente: è qualcosa che viene prima, non in senso cronologico ma in senso logico. Vale a dire che l’ente innanzitutto è, poi è in questo o quel modo, risponde a questa o quella categoria: prima di avere o di essere una certa sostanza, una certa essenza, l’essere è. Il fatto che è rende possibile e attuale tutto il resto, a partire dal fatto che abbia o sia una certa sostanza e una certa essenza. Ma se non fosse, non avrebbe né sostanza, né essenza; non avrebbe alcuna modalità e non corrisponderebbe ad alcuna categoria. Dunque il fondamento di tutto è l’essere: l’essere che emerge vittoriosamente dal nulla. Pertanto solo la filosofia di san Tommaso, come aveva notato Étienne Gilson, è una piena e coerente filosofia dell’essere, del puro essere, che rende possibile ogni altra esistenza e ogni altra cosa; le altre sono forme di essenzialismo, cioè filosofie dell’ente, che è sempre qualcosa di determinato.
Il realismo di san Tommaso, dunque, come osserva Réginald Garrigou-Lagrange, è una forma moderata di realismo, che si colloca all’incirca a metà strada fra il realismo assoluto di Platone, che pone l’esistenza dell’universale come forma che esiste non solo nella mente, ma nella realtà effettiva delle Idee, e il nominalismo, che nega ogni realtà sostanziale all’universale e ne fa un puro ente logico, che esiste senza alcun rapporto concreto con gli enti. Alcuni hanno spinto l’interpretazione del realismo moderato di Tommaso fino a qualificarlo come addirittura come un anti-realismo: ad esempio perché la ragione naturale parte sì, dal dato sensibile (nisi in intellctu quod prius non fuerit in sensu) ma va oltre di esso per cogliere l’intelligibilità del reale, il che significa elaborare un universo mentale e non reale. Ma si tratta di un’esagerazione: perché in san Tommaso l’universale non svaluta, come in Platone, il particolare: e il dato sensibile è sempre individuale, non già universale. Dunque la filosofia di san Tommaso non solo non perde l’aggancio con la dimensione della realtà concreta, ma ne fa la sua base di partenza: in pieno accordo, anche qui, con il senso comune. E la grandezza di Tommaso è proprio nell’aver visto che la menta parte sempre dall’individuale concreto, e la prima cosa che vi trova non è una certa quidditas, o essenza, ma il puro esse: l’atto cioè di esistere. Chiarissimo l’esempio che fa Garrigou-Lagrange del neonato il quale – direbbe Dante – bagna ancora la lingua attaccato alla mammella della madre (cfr. Par., XXXIII, 108): percepisce un liquido bianco e dolce e poi, con l’esperienza, impara che quelle sensazioni visive e gustative corrispondono a un ente, il latte: non sa ancora cosa sia ma già percepisce che c’è, che esiste; e quindi coglie l’ente nell’atto di essere, poi lo universalizza con un’idea e infine gli dà un nome.
L’oggetto proprio dell’intelletto umano è dunque – come osserva Sofia Vanni Rovighi – l’essenza delle cose corporee: quidditas sive natura in materia corporali existens (Summa, I, q. 84, art. 7), quidditas rei materialis (q. 88, art. 3). Ma poi l’illustre studiosa aggiunge: il che vuol dire la realtà corporea considerata nella sua essenza (S. Vanni Rovighi, Introduzione a Tommaso d’Aquino, Laterza, 1973, 1995, p. 100). E benché subito dopo affermi che ciò non contraddice affatto a quella della prima questione “De veritate” secondo la quale il primo oggetto dell’intelletto è l’essere, poiché la “quidditas rei materialis è ciò in cui l’intelletto scopre la prima volta l’essere, ciò che per primo coglie come ente, non è questo uno scivolare nell’essenzialismo? Tommaso non dice che la ragione coglie l’essere come ente, ma attraverso l’ente: cosa ben diversa. Sì, lo sappiamo: può sembrare una sfumatura di scarsa importanza, quasi una questione di lana caprina. Invece è una distinzione decisiva: la mente coglie l’intelligibile nell’evidenza e nella immediatezza dell’ente percepito nell’atto di esistere; non sa ancora bene cosa sia, ma sa che c’è, e questa è la base di tutto.
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