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Ricordi il sud di una volta? Devi parlare dei migranti di oggi

la veritĂ  marcello veneziani Jun 23, 2025

di Marcello Veneziani

La parola d’ordine del giorno è una sola, categorica, impegnativa per tutti: largo ai migranti. Corre come una velina in tutti gli ambiti, viene infilata in ogni contesto, è il tormentone del giorno somministrato dai maestrini del Mainstream. Gli scontri di Los Angeles e la bocciatura al referendum del quesito sulla cittadinanza dei migranti hanno attivato una specie di ola mediatica e tutti quelli che sono di sinistra si alzano e si inalberano sul tema, anche perché permette di attaccare Trump e Meloni in un colpo solo.

Per dirvi a che punto arrivano i loro riflessi condizionati e la loro l’ossessione monomaniacale sul tema del giorno, devo partire da una cosa che almeno in partenza non c’entra affatto. Dunque io pubblico un libro, C’era una volta il sud, di cui vi ho già parlato, dedicato al meridione di un tempo, un libro di ricordi e sentimenti e lo presento in tv, radio e in giro per l’Italia. E sentite che succede, grazie al traduttore simultaneo e ideologico di cui vi dicevo prima. In primo luogo mi dicono: hai pubblicato questo libro sul nostro sud, ma possiamo in realtà parlare di ogni sud del mondo. Io replico: no, scusate, io parlo proprio del meridione d’Italia e se non credete alle mie parole, che pure sono l’autore, credete alle immagini; le foto sono tutte del nostro sud di una volta.

In secondo luogo, qualcuno crede di prendermi in castagna e dice: ma lei a un certo punto racconta un episodio che la riguarda direttamente: una volta, al sud, ai tempi del colera le capitò di partire dalla Puglia quando imperversava il vibrione e toccava premunirsi di un permesso sanitario per uscire dalla regione. Viaggiando tra il Piemonte e la Valle d’Aosta, lei esibii al controllore il lasciapassare e gli altri viaggiatori, scrive, la guardarono spaventati, come un appestato. E lei cambiò carrozza. Allora l’intervistatrice mi incalza: ma non è quello che facciamo noi ora con gli immigrati? Traduco la domanda: quei settentrionali non erano dunque razzisti verso di lei come oggi quelli di “destra” sono razzisti verso i migranti? Non perdo la pazienza e replico: gentile signora, è comprensibile, è umano che avessero paura del contagio; a parti invertite, se fossero arrivati a sud dei presunti appestati dal nord, sarebbe stata la stessa cosa. E quello che a lei ricorda l’odio per i migranti a me ricorda invece la paura di contaminarsi ai tempi del covid. Se lo ricorda? è recente. Che c’entra il razzismo?

A questo punto, si rompono gli argini e i suddetti inquisitori vanno all’attacco: ma insomma il suo è un libro nostalgico, che vuol tornare indietro, che rimpiange il sud dei padroni e dei signori, dello sfruttamento contadino, proprio come succede oggi con i migranti, della miseria e della sottomissione, del patriarcato e dell’arretratezza. Fingendo di mantenere la pazienza replico: ma no, se aveste letto il libro anziché giudicarlo, avreste capito lo spirito del testo e delle immagini, che è dichiarato chiaramente in queste pagine. Ovvero, non rimpiango il sud di una volta, non voglio tornare indietro, impresa impossibile e improponibile; ho solo fatto un viaggio nel sud di una volta, per il gusto, la curiosità, la tenerezza di ricordare. È un viaggio sentimentale, non è un saggio storico-ideologico sulla questione meridionale. La nostalgia anima quei testi, è vero, ma è di tipo sentimentale, affettivo, spirituale e letterario. Nella loro testa la parola nostalgico risuona ancora come un tempo, per definire uno che rimpiange l’ancien regime, i Borbone o peggio il duce. Ma no, signori, toglietevi l’elmetto, la nostalgia è un delicato sentimento d’amore per il tempo perduto, è inerme, non è aggressivo verso alcuno, ha qualcosa d’intimo e di universale, non è un risentimento di rivalsa e di vendetta, non ha carattere politico o revanscistico. La letteratura, la poesia, l’arte si nutrono di nostalgia, ma anche i nostri affetti, i nostri legami, le nostre memorie d’infanzia e di gioventù si cibano di nostalgia. Perché dovremmo cancellarla o vergognarcene?

La verità è che non sono più capaci di ricordare e chi si ostina a farlo, va considerato un vizioso. Non sono i progressisti ma anche i loro dirimpettai destrorsi. Il mio è un libro dedicato ai ricordi e all’arte di ricordare, che non si vergogna di intitolarsi, come nelle fiabe, C’era una volta il sud. Invece oggi vige da un verso una specie di amnesia generale sul passato e dall’altra una specie di reazione allergica ai ricordi. Ma girando tra programmi e incontri mi accorgo che per tanti è impossibile riproporre oggi i ricordi, le immagini e i pensieri, li riconducono subito al paragone con l’oggi o peggio vogliono politicizzarli. E dal verbo ricordare asportano d’urgenza il tumore della nostalgia.

La bellezza di ricordare un tempo che fu non è nello sforzo di attualizzarlo o viceversa di denunciare la sua arretratezza, i suoi mali; ma il piacere di navigare in un mondo diverso dal nostro; il suo fascino è nella lontananza dal presente, incolmabile. È quella la ricchezza e la bellezza dei ricordi, la curiosità che suscitano sta proprio nella loro distanza da ciò che siamo e viviamo oggi. Tu parli della civiltà contadina e loro pensano alle lotte sindacali e riducono tutto all’oggi. Tu parli del vecchio sud di una volta e loro ti dicono che si dobbiamo occuparci dei sud del mondo. Tu parli degli emigrati dal sud d’Italia al nord e loro ti piazzano subito il paragone coi flussi migratori; da un album di ricordi vogliono trarre l’alibi per parlare d’accoglienza, cortei, inclusione e cittadinanza.

Non riescono ad abbandonarsi alla dolcezza di ascoltare il flauto leggero dei ricordi, e tu autore devi subito compilare il modulo: non sono reazionario, non sono razzista, non rimpiango il passato, sono conforme all’oggi.

Così alla fine cancelliamo i ricordi e desertifichiamo le nostre anime. Non è un progresso, credetemi. È un impoverimento. Poi, certo, amare i ricordi non vuol dire restarne prigionieri. C’era una volta un russo, un giornalista, Solomon Shershevsky che ricordava tutto, ma la sua prodigiosa memoria era una malattia, la chiamavano ipertimesia e sinestesia; ricordava tutto e i cinque sensi interagivano di continuo tra loro. I neuroscienziati che se ne occuparono, affrontarono parallelamente il caso di un americano di nome Henry, che invece non ricordava niente, resettava tutto. Il russo tutta memoria e l’americano tutto oblio, sembra quasi una metafora di due mondi. Noi umani abbiamo bisogno di ricordare e anche di dimenticare, altrimenti la nostra vita è un inferno. In fondo la fotografia serve un po’ al doppio scopo: ricordare eventi e persone del passato e collocare i ricordi in un album, per contenerli ed evitare che infestino la nostra mente e occupino il nostro oggi. «Si fotografano delle cose per allontanarle dalla propria mente» scrive Kafka. L’album di foto come teca e deposito, in cui svuotare memorie troppo piene, trasferendole in una raccolta di immagini, come in un cloud, sgombrando la mente troppo affollata. O viceversa per restituire memoria a giorni, persone e situazioni che avevamo dimenticato e che non c’entrano con temi e figure d’oggi. La vita umana è un fragile equilibrio tra memoria e oblio. Non dimentichiamocene.

La Verità – 13 giugno 2025

FONTE : Marcello Veneziani

 

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