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TUTELARE IL DIRITTO ALLA VITA, ANCHE DA PARTE DELLE REGIONI

centro studi livatino giovanna razzano Jul 16, 2024

Cari amici della Brigata, vi proponiamo l'Audizione della prof.ssa Giovanna Razzano in II Commissione del Consiglio Regionale della Liguria, ringraziando il Centro Studi Livatino per la diffusione.

Osservazioni della prof.ssa Giovanna Razzano al PDL n.171 riguardante l’assistenza sanitaria regionale al suicidio medicalmente assistito.

 PDL n. 171 “Procedure e tempi per l’assistenza sanitaria regionale al suicidio medicalmente assistito ai sensi e per effetto della sentenza n. 242/19 della Corte Costituzionale”. 

17 giugno 2024 

On. Presidente, 

On.li Consiglieri, 

Vi ringrazio molto per l’invito all’audizione. La memoria che segue si articola in cinque punti: 

1) la proposta di legge è fondata su un presupposto inesatto, ossia sulla errata lettura della sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale; 

2) la legge regionale non è competente a disciplinare le questioni di fine vita; 

3) il parere reso a questo riguardo dall’Avvocatura Generale dello Stato conferma che la disciplina relativa alla titolarità e all’esercizio dei diritti fondamentali rientra nella competenza esclusiva del legislatore statale; 

4) la Relazione di accompagnamento alla PDL, specie negli articoli 5 e 6, presenta delle gravi ambiguità; 

5) la recente sentenza della Corte di Strasburgo Dániel Karsai v. Hungary, del 13 giugno 2024, ha ancora una volta escluso l’esistenza di un diritto al suicidio nel quadro della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e ha raccomandato di tutelare il diritto alla vita, specie dei soggetti vulnerabili, nonché di assicurare la dignità nel morire attraverso elevati standard di cure palliative. 

1. La proposta di legge di iniziativa popolare rubricata “Procedure e tempi per l’assistenza sanitaria regionale al suicidio medicalmente assistito ai sensi e per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019” si fonda su di un grande equivoco e su di una manipolazione grossolana del contenuto della sentenza della Corte costituzionale n. 242/2019. Si basa infatti sul presupposto erroneo che la Consulta abbia affermato il diritto individuale e inviolabile all’erogazione di prestazioni e trattamenti di suicidio medicalmente assistito (cfr. artt. 1, comma 2, e 2, comma 1, della proposta di legge). 

Per sgomberare il campo da malintesi, occorre precisare che, al contrario, la Corte costituzionale non ha affermato l’esistenza di un diritto all’assistenza al suicidio, né ha chiesto al Parlamento di obbligare il Sistema Sanitario Nazionale ad organizzare procedure sistematiche finalizzate a procurare la morte con farmaci letali. Il punto 6 della motivazione della sentenza è inequivocabile: «La presente declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato». Altro è la non punibilità di un reato in presenza di talune circostanze, altro è trasformare questa non punibilità addirittura in un diritto. Quanto alle strutture pubbliche del sistema sanitario nazionale, ad esse la sentenza affida «la verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio», in attesa della declinazione che potrà darne il legislatore (statale). È inesatto, perciò, confondere tali compiti «di verifica» con presunti doveri «di organizzazione» per l’«erogazione di prestazioni e trattamenti di suicidio medicalmente assistito», come invece arriva ad affermare la proposta di legge de quo. La quale, oltretutto, considera l’assistenza al suicidio come attività sanitaria e terapeutica, dimenticando che è finalizzata a provocare la morte

Va ricordato, infatti, che la Corte costituzionale, se da un lato ha creato una circoscritta area di non punibilità all’interno della fattispecie criminosa, dall’altro ha lasciato fermo il reato di aiuto al suicidio, cosicché, «chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione» continua ad essere iscritto nel registro degli indagati, ai sensi dell’art. 580 c.p. e continua ad essere punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Per la Corte, infatti, non è possibile desumere la «generale inoffensività dell’aiuto al suicidio da un generico diritto all’autodeterminazione individuale» (punto 2.2.), perché «dall’art. 2 Cost., così come dall’art. 2 CEDU, discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo e non quello di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire». Per la Consulta, la ratio dell’art. 580 c.p. può essere agevolmente scorta, alla luce del vigente quadro costituzionale, nella «tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio. Essa assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze». Insomma mantenere fermo il reato di aiuto al suicidio è funzionale alla tutela del diritto alla vita. 

Queste medesime argomentazioni sono state ribadite e ulteriormente precisate dalla sentenza n. 50/2022, quella con cui la Corte “ha bocciato” – dichiarandolo inammissibile – il referendum sull’abrogazione parziale del reato di omicidio del consenziente. Anche qui, con riguardo all’art. 579 c.p. (omicidio del consenziente), come già in riferimento all’art. 580 c.p. (aiuto al suicidio), per la Consulta la ratio della norma, nata in un ordinamento diverso da quello costituzionale, può oggi essere individuata nella protezione del diritto alla vita; un diritto che, per la Corte, occorre garantire nei confronti «soprattutto – ma occorre aggiungere: non soltanto – delle persone più deboli e vulnerabili, in confronto a scelte estreme e irreparabili, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate». Ha poi ribadito l’idea che il diritto alla vita, «valore che si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona», è «da iscriversi tra i diritti inviolabili, e cioè tra quei diritti che occupano nell’ordinamento una posizione, per dir così, privilegiata, in quanto appartengono – per usare l’espressione della sentenza n. 1146 del 1988 – “all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”». In quest’ultima occasione la Corte ha altresì spiegato che, «quando viene in rilievo il bene della vita umana, la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima».

2. Quanto appena rammentato è utile anche per mettere a fuoco la questione costituzionale centrale rispetto a cui deve essere valutata la proposta di legge, e cioè l’incompetenza della legge regionale a disciplinare questa «materia»

Come si è visto, le questioni attengono alla materia penale. Inoltre coinvolgono il diritto alla vita, primo fra i diritti fondamentali della persona. Ora tali questioni rientrano evidentemente nella «materia» «ordinamento civile e penale», che la lettera l) dell’art. 117, comma 2, della Costituzione annovera fra quelle di spettanza esclusiva statale e che sono di conseguenza sottratte alla competenza legislativa regionale. 

Del resto, quanto più si richiama la sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale – come fa la proposta di legge regionale (art. 1, comma 1) – tanto più si rimarca la rilevanza penale della questione, che ruota attorno all’art. 580 c.p. Se poi si considerano i plurimi riferimenti della sentenza ai diritti fondamentali della persona, viene in rilievo l’«ordinamento civile», materia che la Costituzione assegna alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2). E, d’altra parte, è lo stesso principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) a non poter tollerare una regolamentazione differenziata sul territorio nazionale. 

Inoltre, anche a voler esaltare l’avverbio «medicalmente» – contenuto nel titolo della proposta – e quindi una correlazione fra il diritto alla salute e l’assistenza a morire, la proposta di legge sarebbe del pari manifestamente incostituzionale, vertendo su principi fondamentali della materia «tutela della salute», comunque riservati alla legislazione statale in virtù della competenza concorrente sussistente in materia (art. 117, terzo comma). Come non considerare attinente ai «principi fondamentali» ciò che incide sul delicatissimo ambito del fine vita, dove vengono in rilievo la vita, la morte, la dignità, le garanzie costituzionali relative al diritto alla salute, la pari dignità e l’uguaglianza «senza distinzioni di condizioni personali e sociali» (art. 3 Cost.)? 

La legge regionale che voglia normare in tema di «suicidio medicalmente assistito» sarebbe, pertanto, manifestamente incostituzionale

Questa conclusione trova conferma in un precedente giurisprudenziale di grande interesse, avente ad oggetto tematiche di rilievo bioetico attinenti a questioni di fine vita e tendenti ad anticipare il legislatore nazionale colmando presunti vuoti. Si tratta della sentenza della Corte costituzionale n. 262/2016, con cui sono state dichiarate incostituzionali la legge della regione Friuli Venezia Giulia 13 marzo 2015, n. 4, recante «Istituzione del registro regionale per le libere dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario (DAT) e disposizioni per favorire la raccolta delle volontà di donazione degli organi e dei tessuti», e la legge della medesima regione Friuli Venezia Giulia 10 luglio 2015, n. 16, recante «Integrazioni e modificazioni alla legge regionale 13 marzo 2015, n. 4 (Istituzione del registro regionale per le libere dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario (DAT) e disposizioni per favorire la raccolta delle volontà di donazione degli organi e dei tessuti)». 

La legge regionale, infatti, nella sua formulazione originaria, affermava esplicitamente di intervenire «nelle more dell’approvazione di una normativa in materia a livello nazionale», «in attuazione di quanto previsto dagli articoli 2, 3, 13 e 32 della Costituzione, dall’articolo 9 della Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997, ratificata dalla legge 28 marzo 2001, n. 145 e dall’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea» (art. 1, comma 3). Inoltre la clausola posta a chiusura di tale primo articolo prevedeva «un successivo adeguamento a seconda di quelle che saranno le disposizioni previste dalla normativa statale», con l’obiettivo di colmare il vuoto legislativo e di anticipare il legislatore nazionale con un proprio atto normativo in materia.

La Corte costituzionale, proprio in considerazione di quanto appena osservato, ha dichiarato illegittime entrambe le leggi della Regione Friuli, spiegando che, da un lato, l’articolata regolamentazione relativa ad un registro funzionale a tale scopo interferisce nella materia dell’«ordinamento civile», attribuita in maniera esclusiva alla competenza legislativa dello Stato dall’art. 117, comma 2, lett. l), Cost.; e che, dall’altro, la disciplina in tema di disposizioni di volontà relative ai trattamenti sanitari nella fase terminale della vita incide su aspetti essenziali della identità e della integrità della persona. Una circostanza che, al pari di quella che regola la donazione di organi e tessuti, necessita, secondo la Corte, di uniformità di trattamento sul territorio nazionale, per ragioni imperative di eguaglianza, ratio ultima della riserva allo Stato della competenza legislativa esclusiva in materia di «ordinamento civile», disposta dalla Costituzione. 

Pertanto, anche a prescindere dal merito e dai contenuti assai discutibili della proposta di legge, è sufficiente considerare che questa interviene in materia di «ordinamento civile e penale», nonché nell’ambito dei principi fondamentali della materia «tutela della salute», per concludere che la stessa è palesemente incostituzionale, perché eccede le competenze legislative assegnate dalla Costituzione alle Regioni (art. 117, commi 2 e 3). 

3. Quanto affermato trova conferma in un parere reso proprio su questo aspetto dall’Avvocatura Generale dello Stato1, la quale, dopo aver richiamato il complesso iter argomentativo delle sentenze n. 242/2019 e n. 50/2022, ha evidenziato come, da entrambe le pronunce della Corte costituzionale, emerga l’inesistenza di un diritto a morire, il dovere dello Stato di proteggere la vita di ogni individuo, e l’appartenenza del diritto alla vita all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana. L’Avvocatura, sulla base di queste premesse, è pervenuta così alla conclusione per cui «la disciplina relativa alla titolarità e all’esercizio dei diritti fondamentali rientra nella competenza esclusiva del legislatore statale ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lett. l), Cost. (…), così come le scelte in tema di creazione o estensione della punibilità penale». A sostegno di tale conclusione si richiama inoltre quella giurisprudenza costituzionale, in primis la menzionata sent. n. 262/2016, ma anche le sentenze n. 75 del 2021 e n. 228 del 2021, ai sensi delle quali «l’attribuzione alla potestà legislativa esclusiva dello Stato della materia «ordinamento civile» trova fondamento nell’esigenza, sottesa al principio di uguaglianza, di garantire nel territorio nazionale l’uniformità della disciplina dettata per i rapporti tra privati». 

L’Avvocatura ha richiamato anche l’art. 117, comma 2, lett. m), osservando come «i criteri dettati dalla Corte nella sentenza n. 242/2019 scontano un inevitabile tecnicismo (si pensi, ad esempio, alla nozione di “trattamenti di sostegno vitale”), che, inevitabilmente, si prestano ad interpretazioni non omogenee». Altrettanto vale, sempre secondo il parere, per l’obiezione di coscienza degli operatori sanitari e la composizione dei comitati etici locali, cosicché va escluso che la relativa disciplina possa essere dettata da una legislazione concorrente statale e regionale. 

Inoltre l’Avvocatura ha riconosciuto come la proposta normativa in esame intersechi indubbiamente una pluralità di materie, alcune delle quali anche di competenza legislativa concorrente delle Regioni, come, appunto, la tutela della salute, ma ha ricordato che la Corte costituzionale ha ribadito, anche con la nota sentenza n. 5 del 2018, «che il diritto della persona di essere curata efficacemente, secondo i canoni della scienza e dell’arte medica, e di essere rispettata nella propria integrità fisica e psichica (sentenze n. 169 del 2017, n. 338 del 2003 e n. 282 del 2002) deve essere garantito in condizione di eguaglianza in tutto il Paese, attraverso una legislazione generale dello Stato basata sugli indirizzi condivisi dalla comunità scientifica nazionale e internazionale». 

A questo riguardo è importante notare, fra l’altro, che la PDL in esame, mentre stabilisce il «diritto individuale e inviolabile» all’erogazione di trattamenti di assistenza al suicidio (cfr. art. 1, comma 2, della proposta), nulla prevede sull’obiezione di coscienza del personale sanitario. Una dimenticanza non trascurabile, dal momento che il medico dovrebbe porre in essere comportamenti finalizzati a causare la morte altrui. Si tratta di un altro aspetto rilevante nel quale la proposta si discosta dalla sentenza della Corte costituzionale. 

Quanto alla composizione dei comitati etici locali menzionati dall’Avvocatura, può essere qui ricordata la Risposta del Comitato Nazionale di Bioetica resa in data 24 febbraio 2023 al quesito del Ministero della salute pervenuto il 2 gennaio 2023, che aveva chiesto di individuare quali fossero i comitati etici idonei a rendere il previo parere cui si riferisce la sent. n. 242/2019 della Corte costituzionale. Il CNB, nel rispondere che tale competenza può essere assolta dai CET (i Comitati Etici Territoriali di cui al Decreto del 26 gennaio 2023, “Individuazione di quaranta comitati etici territoriali”), uniformemente presenti nel Paese (anche se non ha escluso che tali compiti possano essere assolti anche dai Comitati Etici non inclusi nell’elenco dei quaranta), ha raccomandato di istituire al loro interno una commissione di esperti esterni che contempli le figure del «medico palliativista con competenze ed esperienze assistenziali, del medico anestesista rianimatore, dello psicologo, dello psichiatra, del bioeticista, di un infermiere con competenze ed esperienze specifiche in cure palliative, del medico di medicina generale, dell’esperto in diritto, e va sentito il familiare o il fiduciario indicato dal paziente o in loro assenza l’amministratore di sostegno. A seconda della problematica clinica dovrebbero poi essere coinvolti i medici specialisti che hanno in cura e/o sono competenti sul caso del paziente». 

Il CNB ha fra l’altro ricordato che, ai sensi del punto 5 della sentenza della Corte, il Comitato Etico deve verificare se l’interessato sia stato coinvolto in un percorso di cure palliative ex L. n. 38/2010, al fine di garantire un adeguato sostegno sanitario e socioassistenziale della persona malata e della famiglia, nella consapevolezza che «un adeguato percorso di cure palliative possa essere la principale risorsa utile per contenere la richiesta di suicidio medicalmente assistito». 

La PDL in esame, tuttavia, allontanandosi anche in questo significativo aspetto dalla sentenza n. 242/2019, non menziona mai il coinvolgimento in un percorso di cure palliative quale «pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente». 

4. Sembra ora importante dedicare attenzione agli articoli 5 e 6 della proposta di legge, apparentemente di minor rilievo. Nel primo si afferma la gratuità delle prestazioni e dei trattamenti inerenti al percorso di assistenza al suicidio, nell’altro viene assicurato che dalla nuova legge «non derivano nuovi e maggiori oneri a carico del bilancio regionale». Ora tali affermazioni sono fra loro evidentemente contraddittorie, in quanto, da un lato, il riferimento a prestazioni e trattamenti implica dei costi, perché occorrono medici, professionisti sanitari e personale amministrativo, oltre che farmaci; dall’altro, si proclama la gratuità del percorso «terapeutico-assistenziale» (ammesso e non concesso che il procurare la morte possa considerarsi “terapeutico”). La domanda, allora, è d’obbligo: con quali risorse economiche i proponenti pensano di finanziare tali percorsi? A quale capitolo di spesa sanitaria ritengono di poter fare ricorso? A quali fondi pensano di attingere?

Questi interrogativi sono cruciali, perché per un verso evidenziano che, al di là dei proclami, nel sistema sanitario nazionale e regionale non esiste alcun diritto all’assistenza al suicidio e nessuna corrispondente prestazione di questo tipo ricompresa nei LEA. Per altro verso, sorge il dubbio che l’intenzione dei proponenti sia quella di attingere a fondi regionali destinati all’assistenza sanitaria. Se così fosse, però, il denaro pubblico destinato alla tutela della salute e alla prevenzione verrebbe indirizzato a percorsi di assistenza al suicidio che sono tutt’altro che tutelati dall’ordinamento, trattandosi non già di diritti ma di comportamenti che, se non rientrassero nell’area di non punibilità individuata dalla Corte con la sent. n. 242/2019, sarebbero reati (ex art. 580 c.p.). 

Tale dubbio trova una base nella Relazione alla proposta di legge, laddove si menzionano le cure palliative di cui alla legge n. 38/2010, le cui prestazioni sono invece inserite nei LEA. A detta dei proponenti, tale legge sarebbe stata “rivitalizzata” dalla sentenza della Corte, la quale, in riferimento ad un percorso di sedazione palliativa profonda continua, avrebbe affermato un principio di «non discriminazione nell’accesso alle prestazioni tra persone malate nell’esercizio della piena autodeterminazione nelle scelte di fine vita». Questa affermazione sembrerebbe voler alludere ad una sorta di fungibilità fra la prestazione sanitaria volta a fornire cure palliative e quella volta a realizzare un’assistenza al suicidio. Di conseguenza, pare sottintendere la possibilità di attingere le risorse per l’assistenza al suicidio dal “salvadanaio” destinato alle cure palliative, quasi omologando la sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte (che è parte integrante dell’assistenza palliativa e della terapia del dolore) all’aiuto al suicidio. 

Questo punto merita attenzione. 

In primo luogo va chiarito che, in realtà, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 242/2019, ha dichiarato che il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire «un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente»; e che «deve essere sottolineata l’esigenza di adottare opportune cautele affinché l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza […] in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la citata legge n. 38 del 2010». La Consulta ha poi evidenziato che sarebbe un paradosso «non punire l’aiuto al suicidio senza avere prima assicurato l’effettività del diritto alle cure palliative». Infine, riprendendo quanto dichiarato dal CNB in un suo parere, ha osservato che la necessaria offerta effettiva di cure palliative e di terapie del dolore deve rappresentare «una priorità assoluta per le politiche della sanità», mentre invece ancora sconta «molti ostacoli e difficoltà, specie nella disomogeneità territoriale dell’offerta del SSN e nella mancanza di una formazione specifica nell’ambito delle professioni sanitarie». 

La sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte, che è parte integrante del diritto alla salute ed è pienamente lecita ed eticamente raccomandabile ove appropriata, nulla ha a che vedere con l’aiuto al suicidio2. Nell’un caso l’obiettivo è non far soffrire il paziente, attraverso una sedazione realizzata con farmaci adeguati, e l’effetto che procurano è appunto sedativo3. Nell’altro caso l’obiettivo è invece porre fine alla vita del paziente, tramite farmaci che procurano la morte, e l’effetto è appunto la morte in pochi secondi. 

Insomma altro sono i diritti fondamentali e i diritti umani (le cure palliative e la terapia del dolore), altro sono i reati ovvero i comportamenti meramente “non punibili”. E sarebbe assurdo, specie in tempi di scarsità di risorse, finanziare con i fondi destinati ai diritti fondamentali talune prestazioni volte a provocare la morte, le quali, al più, rientrano nell’area di non punibilità, ma sicuramente non sono diritti. Molti pazienti aspettano più di un anno per una visita specialistica o per un intervento e spesso finiscono per rinunciare, a meno di non pagare di tasca propria. Ѐ scandaloso, poi, che in Italia, a tredici anni dalla legge n. 38/2010, solo il 10% dei circa 35.000 pazienti in età pediatrica bisognosi di cure palliative riescano a trovare una risposta adeguata ai loro bisogni4. Attenzione, insomma, a difendere le risorse destinate alla cura dei malati e ai loro diritti costituzionali. 

5. Infine si desidera richiamare l’attenzione di questa Commissione dell’Assemblea regionale sulla recentissima sentenza della Corte Europea per i Diritti Umani del 13 giugno 2024, Application no. 32312/23, case of Dániel Karsai v. Hungary. In questa occasione, infatti, a fronte di un paziente malato di SLA che aveva rivendicato un presunto diritto ad ottenere assistenza al suicidio, la Corte di Strasburgo ha risposto che l’aiuto medico al suicidio presenta implicazioni sociali importanti e rischi di errore e abuso nella pratica. Di conseguenza, la sentenza ha escluso che, in base alla Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo, e in particolare all’art. 8, esista un diritto all’assistenza al suicidio (cfr. paragrafo 155). La sentenza ha altresì escluso che possa esservi discriminazione e quindi violazione del principio di uguaglianza, ai sensi dell’art. 14 della CEDU, fra chi rifiuta trattamenti di sostegno vitale (life-sustaining treatment), con tutto ciò che ne consegue, e chi, pur desiderando morire a causa delle sue sofferenze non è sottoposto a trattamenti di sostegno vitale e dunque, non potendoli rifiutare, non può ottenere la morte. Le due situazioni, infatti, non sono comparabili per la Corte di Strasburgo, come comprova la circostanza che, mentre il diritto di rifiutare interventi in ambito medico è riconosciuto dalla Convenzione di Oviedo, quest’ultima non salvaguarda alcun interesse relativo al suicidio medicalmente assistito («the right to refuse or withdraw consent to interventions in the health field is recognised also in the Oviedo Convention, which, in contrast, does not safeguard any interests with regard to PAD» – paragrafo 176) 

Infine il dovere prioritario degli Stati membri di tutelare le persone più fragili consente loro un ampio margine di discrezionalità e, in questo senso, la Corte ha ritenuto che le autorità nazionali ungheresi non hanno mancato di trovare un giusto equilibrio tra gli interessi in gioco. Anzi, il divieto di aiuto al suicidio persegue finalità legittime, quali, fra gli altri, proteggere le vite dei soggetti vulnerabili dal rischio di abusi, preservare l’integrità della professione medica, e tutelare la morale della società per quanto riguarda il significato e il valore della vita umana. La Corte europea osserva poi che la stragrande maggioranza degli Stati membri proibisce l’aiuto medico a morire e ribadisce che sul tema della morte assistita esiste un ampio margine di apprezzamento in capo agli Stati. 

Per quanto più specificamente concerne la PDL in oggetto, sembra importante evidenziare alcune affermazioni della sentenza: 

– poiché con riguardo alla questione del suicidio assistito vengono in rilievo questioni morali ed etiche estremamente delicate (e pertanto non mere questioni amministrative attinenti all’organizzazione sanitaria) e viene in rilievo il dovere dello Stato di proteggere le persone più vulnerabili ai sensi dell’art. 2 CEDU, l’eventuale disciplina concernente l’aiuto medico a morire spetta semmai alle autorità nazionali (e non sub-statali e regionali) (cfr. i paragrafi 141-145 e 149 della sentenza); 

– le cure palliative di alta qualità e l’accesso a terapie di trattamento efficace del dolore, sono, in molte situazioni, essenziali per garantire la dignità alla fine della vita e sono generalmente in grado di recare sollievo ai pazienti e consentire loro di morire serenamente (paragr. 154). Di fronte a pazienti con gravi situazioni di sofferenza fisica e psichica, occorre un approccio umano che deve necessariamente includere tali cure, caratterizzate da compassione e da alti standard medici (paragr. 158). 

In conclusione, mentre risulta estranea alle competenze legislative della Regione, in base ai motivi che precedono, una legge volta a disciplinare “Procedure e tempi per l’assistenza sanitaria regionale al suicidio medicalmente assistito ai sensi e per effetto della sentenza n. 242/19 della Corte Costituzionale”, è invece nella piena competenza regionale implementare, a tutti livelli, «la necessaria offerta effettiva di cure palliative e di terapia del dolore». 

Grazie per l’attenzione 

Giovanna Razzano 
Ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico presso l’Università La Sapienza di Roma, componente del Comitato nazionale di Bioetica 

  1. Parere reso dall’Avvocatura Generale dello Stato in data 15 novembre 2023, su richiesta del Presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, che ha chiesto di sapere se «l’eventuale adozione della normativa della proposta di legge possa ricondursi alle competenze legislative della Regione o rientri, invece, nella competenza statale».  ↩︎
  2. Unanimi la posizioni delle società scientifiche mediche in merito alla distinzione fra limitazione dei trattamenti (e adeguata terapia del dolore, inclusa la sedazione) e atti volti a terminare intenzionalmente la vita. Cfr. da ultimo European Association for Palliative Care: S.M. Surges et al. Revised European Association for Palliative Care (EAPC) recommended framework on palliative sedation: An international Delphi study, Palliative Medicine 2024; 38(2): 213-228; cfr. inoltre FNOMCEO, Comunicazione n. 41, parere in materia di suicidio assistito, 14 marzo 2019; Position Statement from American Pain Society Treatment of pain at the end of life, 1996-2004, in www.ampainsoc.org.; L. RADBRUCH, C. LEGET, et al., Euthanasia and physician-assisted suicide: A white paper from the European Association for Palliative Care, in Palliative Medicine, 2015, Nov 19; SIAARTI recommendations for the admission and discharge from Intensive Care and for the limitation of treatments in Intensive Care, in Minerva Anestesiologica, 2003, 69:101-118; SIAARTI, Le cure di fine vita e l’anestesista-rianimatore: raccomandazioni Siaarti per la persona morente, update 2018. Cfr. pure SICP, «Raccomandazioni della SICP sulla sedazione terminale/palliativa», 2007; SICP, comunicato 8 febbraio 2013, «La SICP precisa che la sedazione terminale/palliativa non è eutanasia»; ICPCN, Declaration of the ICPCN of Mumbai, 12 February 2014; SFAR, Fin de vie, euthanasie et suicide assisté: une mise au point, 29 giugno 2012. Cfr. CNB, parere Sedazione profonda continua nell’imminenza della morte, 29 gennaio 2016. Nella prospettiva costituzionale, G. RAZZANO, Sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte o sedazione profonda e continua fino alla morte. La differenza tra un trattamento sanitario e un reato, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, n. 3/2016, pp. 141-165. ↩︎
  3. Cfr. Comitato Nazionale di Bioetica, Parere Sedazione profonda continua nell’imminenza della morte, 2016.  ↩︎
  4. Cfr. l’indagine conoscitiva della Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati, approvata all’unanimità il 10 aprile 2019. Cfr. anche la relazione del Ministero della salute al Parlamento, del 31 gennaio 2019, sullo stato di attuazione della l. n. 38/2010.  ↩︎

FONTE : Centro Studi Livatino

 

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